Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 12/03/2022, a pag.6, con il titolo 'Le bare dei soldati che spaventano il Cremlino', il commento di Gianluca Di Feo.
Gianluca Di Feo
Vladimir Putin
Vyacheslav Maklagin a 28 anni aveva ancora la faccia da ragazzino. Eppure era un veterano: ufficiale dei paracadutisti, aveva partecipato alla spedizione in Siria ricevendo due medaglie al valore. Poi era riuscito a farsi trasferire in una base nei dintorni di Rostov, non lontano dal paesino d’origine, e si sentiva felice: aveva una moglie adorata, un cocker che gli rubava le pantofole e da cinque mesi una figlioletta. Il 28 febbraio è stato ucciso a Kiev, in quella che per i russi è obbligatorio chiamare “operazione militare speciale”. I quattro commilitoni che hanno portato la bara sotto il nevischio mostravano volti provati: tutti gli abitanti di Novoshakhtinsk li hanno seguiti nel viottolo fangoso che porta al cimitero. C’erano le donne in lacrime e gli uomini con sguardi duri; nessuna marzialità, solo dolore e una smorfia di rabbia trattenuta davanti al fotografo. Autorità e superiori non si sono fatti vedere. Un plotone di reclute giovanissime ha sparato in aria una triplice raffica di saluto. Di queste triplici raffiche dalla Siberia al Baltico i russi ne stanno sentendo tante. Troppe per continuare a ignorare la realtà di quello che accade in Ucraina. I giornali locali pubblicano comunicati stringati, ma sul web i reduci raccontano le storie dei camerati caduti: una lista che ogni giorno si allunga e fa aprire gli occhi sulla gravità della situazione. Stanislav Bondarev era nato e cresciuto nella fattoria Mechetny, non lontano dalla foce del Don: campagna povera a cui aveva preferito il mestiere delle armi. È caduto in battaglia a 21 anni. Poco distante, a Gukovo, hanno pianto Andrey Rikov, sergente della fanteria di marina. Aveva 35 anni e da 16 indossava l’uniforme: la prossima settimana sarebbe stato il suo compleanno. La madre, una donna minuta, ha baciato a lungo la bara. A Inna non importa nulla delle scuse di Putin, che adesso vuole punire chi ha mandato al fronte i ragazzi di leva. Non riesce a credere che il suo Yegor sia scomparso in una guerra: era una recluta, chiamata per il servizio obbligatorio sei mesi fa nonostante la faccia imberbe dai delicati lineamenti siberiani. L’unico figlio ora giace in una tomba sul confine cinese: le date sulla croce ricordano come sia stato ammazzato un giorno prima di compiere diciannove anni. Nel villaggio di Bratkovsky per tutti Vasily e Alexander Murenkikh erano “il Grosso” e “il Piccolo”: due fratelli inseparabili, nonostante nove anni di differenza.
Muscolosi e di appetito robusto, hanno scelto la vita militare e chiesto di stare nello stesso reparto. Nessuno si è sorpreso che siano morti fianco a fianco in un’autoblindo attaccata dagli ucraini. “Il Grosso” aveva 39 anni, moglie e due figli, mentre “il Piccolo” era diventato papà da poco. Anche i fratelli Shamko avevano combattuto insieme in Siria. Poi il maggiore, d’età e di grado, si era congedato. Entrambi erano incursori del Gru, l’intelligence militare: veri 007 con licenza d’uccidere. Ad Andrei piaceva la carriera e non aveva ancora completato “il contratto” minimo di ferma: quando a Mosca frequentava l’accademia dei parà aveva conosciuto una ragazza e si erano sposati. È caduto nell’assedio di Karkhiv e il fratello ha portato la sua bara, una delle tante che arrivano a Nizhnevartovsk, capitale del petrolio siberiano e delle truppe d’assalto. Artem Teplov, come tanti in quella città, voleva lavorare nell’industria petrolifera: si era diplomato nell’istituto “Energia e Carburanti”. Gli piacevano gli sport duri: wrestling, boxe, lotta libera. Visto il suo fisico massiccio, durante la leva lo hanno messo nei commandos. Poi è stato assunto in una raffineria ma la routine del tecnico non lo ha convinto. A gennaio si è arruolato volontario, il 4 marzo una razzo lo ha portato via. Invece Nikolai Kazak non aveva idee chiare sul futuro: nel 2019 lo hanno chiamato alle armi e ha scelto di rimanere in caserma: caporale delle forze aerotrasportate. Nikolai aveva 22 anni e si è ritrovato a sparare alle porte di Karkhiv assieme a Igor Vasilenko, 28 anni: sono stati uccisi nel primo giorno dell’invasione. Alla moglie hanno detto che Igor è morto da eroe, ma il figlioletto di due anni ancora non sa nulla. I ventenni Alexei Sevostyanov e Vladimir Nikolenko fino al 2014 erano cittadini ucraini, come tutti gli abitanti di Sebastopoli in Crimea: quando la città ha cambiato bandiera erano alla scuola media. Due anni fa hanno deciso di servire la nuova patria e si sono ritrovati a invadere la vecchia: Alexei come caporale di artiglieria; Vladimir come guastatore degli Spetsnaz con tanto di foto in stile Rambo. A Sebastopoli non si frequentavano, ma il sindaco li ha commemorati insieme. Tutte le cerimonie funebri sono scandite dallo stesso copione e il corteo viene aperto dalla croce ortodossa. In Russia però le religioni sono tante. In Inguscezia sono musulmani: la repubblica autonoma è piantata in mezzo al Caucaso, tra Georgia e Cecenia, dove la fine dell’Urss ha provocato una lunga stagione di violenza.
Putin ha riportato la sicurezza e ora gli ingusci si immolano per lui nella remota Ucraina: Abubakar, Alik, Ramzan, Yunus, Musa, Movsar erano solo soldati semplici o caporali ma per salutarli con il rito islamico parlamentari e ministri locali si sono spostati fino a villaggi sperduti tra le montagne. Queste sono terre di orgoglio guerriero. Nel Daghestan che tenne testa ai russi per secoli, il parà Nurmagomed Gadzhimagomedov è stato presentato dal presidente in modo epico: «Quando gli ucraini lo hanno circondato, ha fatto esplodere una granata e li ha portati via con lui». Il leader ceceno Ramzan Kadyrov è sempre più critico verso Putin. Davanti alle salme di Abdulbek Taramov e Tamirlan Isaevand, i primi pretoriani morti a Kiev, è stato esplicito: «Sì, loro uccidono in guerra». I suoi uomini vanno all’assalto gridando “Allah Akbar”. Konstantin Mandzhiev era diventato soldato per difendere la sua comunità dagli attacchi dei musulmani. La Calmucchia è una striscia autonoma schiacciata tra il Mar Caspio e il Caucaso, l’unica regione europea di fede buddista. I compagni lo ricordano come un sergente di ferro, severo ma pronto a dare la vita per il plotone. E così è stato. Igor Khaziakhmetov nel Caucaso c’era stato con le “forze di pace” di Mosca. Madre russa e padre tataro, è andato pure in missione in Siria ma non ha mai ricevuto una promozione, rimanendo soldato semplice. È entrato in Ucraina guidando un blindato, un missile ha segnato la sua fine. Per Kostantin Zizevsky fare il paracadutista era una tradizione di famiglia. Sulla scrivania teneva la foto del padre Vladimir, con un’uniforme identica alla sua. Il colonnello Vladimir aveva combattuto nell’invasione dell’Afghanistan, ma era riuscito a tornare a casa; il tenente colonnello Kostantin è stato ammazzato in quella dell’Ucraina. Ora sono sepolti uno accanto all’altro a Pskov, nel Baltico. Vasilij Grossman, lo scrittore che ha raccontato Stalingrado, sosteneva che “il russo in guerra indossa sull’anima una camicia bianca. Sa vivere nel peccato, ma muore da santo”. Quelli che stanno cadendo nell’aggressione dell’Ucraina sono soprattutto militari professionisti: obbediscono agli ordini e però hanno la competenza per capire quando il sacrificio diventa senza speranza. Sanno riconoscere – come diceva Grossman – “il corpo insanguinato della guerra agghindato con le vesti immacolate delle convenzioni ideologiche”. Stanno morendo a migliaia. E la loro è una voce che Putin non può ignorare.
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