Riprendiamo da ITALIA OGGI con i titoli "Russia eterna", "C'è la voglia della mordacchia", due commenti di Diego Gabutti.
Diego Gabutti
"Russia eterna"
Vladimir Putin
In Russia ci sono state soltanto due brevi parentesi di libertà politica: pochi mesi tra febbraio e ottobre del 1917, quando il governo era guidato dal laburista Aleksandr Fëdorovič Kerenskij, e i pochi anni di presidenza Eltsin, tra il colpo di stato fallito del KGB nel luglio del 1991 e l’avvento di Putin, ex colonnello del KGB, nel dicembre del 1999. Sono basi fragili per riconoscere alla Russia – una classica tirannia asiatica, già zarista, ex bolscevica – l’inverosimile «identità europea» che gli è stata attribuita da affaristi, complici e sicofanti, a cominciare dai nostri ex comunisti, neosovranisti, populisti e liberali burlesque. Mentre le nazioni dell’ex campo socialista, crollato il Muro di Berlino, sono tornate in Europa, loro collocazione geopolitica naturale, la Russia è rimasta dov’era, tra le satrapie orientali, e rimane ciò che è sempre stata: una minaccia per le società libere. Ogni tentativo d’occidentalizzarsi, da parte della Russia, è invariabilmente fallito: la magia non è riuscita a Pietro il Grande, che impose bon ton e conoscenza del francese ai suoi boiardi, e non è riuscita al partito rivoluzionario occidentalista nell’Ottocento.
Di Kerenskij e Eltsin (o El’cin) abbiamo già parlato: due fiaschi clamorosi. Incorreggibilmente aggressiva e controrivoluzionaria, c’è una Russia eterna che maschera la propria natura, fin dal tempo degli zar, inondando l’Europa d’imposture, menzogne e fake news. È uno scandalo antico. Persino Marx (ricordarlo fa un po’ ridere, visti gli esiti russofili e autocratici della sua dottrina) metteva in guardia l’Europa del proprio tempo dalle mire e dagl’intrighi dell’autocrazia zarista: per farlo s’adattò a collaborare con la Free Press di David Urquhart, un tory scozzese tra i più retrivi e passatisti dell’epoca (si vedano le Rivelazioni sulla storia diplomatica segreta del XVIII secolo escluse dalle edizioni canoniche di Marx, L’Erba Voglio 1978). Esattamente come oggi, e come più tardi in epoca sovietica, anche all’epoca di Marx e di Urquhart la diplomazia segreta russa finanziava partiti politici, singoli demagoghi e testate giornalistiche, indifferentemente di destra o di sinistra, gli uni e le altre strumenti di destabilizzazione e fonti di disinformazione. Per capire che sta ancora succedendo basta seguire le notizie tarocche diffuse dal web a proposito di Covid, d’invasione dell’Ucraina, di multinazionali fellone, di «dittatura sanitaria», o dare un’occhiata ai tweet dei politici europei «antisistema» e ai titoli dei giornali che sistematicamente rilanciano le fake news russe (i costi delle sanzioni antirusse pagate dai poveri contribuenti europei, la Nato che minaccia la sicurezza della Federazione russa). Scendete all’edicola sotto casa, o ascoltate i talk show. Ogni giorno nuove rivelazioni ed evidenze riguardo alla storia diplomatica segreta del XXI secolo.
"C'è la voglia della mordacchia"
Witold Szablowski, Orsi danzanti. Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo, Keller 2022, pp. 286,18,00 euro
Prima del capitalismo (quando le famiglie zingare che poi avrebbero fatto di nuovo ballare gli orsi, erano rispettate, lavoravano nei kolchozy, vivevano in miseria eppur felici) a ballare con un anello al naso sulla pubblica piazza non erano gli orsi ma gli umani. Addomesticati, tenuti alla catena, educati a baciare la mano armata di frusta dei loro padroni comunisti, i cittadini delle democrazie popolari e delle repubbliche sovietiche, crollato il Muro di Berlino, s'erano ritrovati liberi d'un tratto, come i proletari della favola marxista: niente più catene e tutto un mondo da guadagnare. Fu una festa, ma non per tutti. Alcuni si sentirono abbandonati. Bloccati a metà d'un goffo passo di danza, si guardarono intorno smarriti, come racconta il giornalista polacco Witold Szablowski nel suo Orsi danzanti, un grande reportage del 2014. Come gli orsi ballerini degli zingari bulgari, che dopo una breve parentesi circense furono sottratti ai loro addestratori per essere confinati in campi delimitati da recinzioni elettriche, dunque «restituiti alla natura» solo fino a un certo punto, i nostalgici delle democrazie popolari non rimpiangevano l'ideologia (Stato e rivoluzione, i Grundrisse, quella «cagata pazzesca» della Corazzata Potemkin) come facevano e fanno ancora i nostalgici occidentali. Gli orfani del Gulag, del Piano Quinquennale e del Kgb rimpiangevano l'anello al naso. Avrebbero voluto ballare di nuovo sulla pubblica piazza, le bandiere rosse al vento, mentre l'aristocrazia di partito, sotto il colbacco, le mani affondate nelle tasche del cappotto, tornava a ispezionare con sguardo cespuglioso l'infilata di missili e lanciamissili, di carrarmati e di truppe speciali che sfilavano, ogni primo maggio, davanti ai palazzi del potere socialista. Non succederà più, naturalmente. Nonostante le smargiassate atomiche dell'ex colonnello del Kgb che governa (per ora) la Federazione russa, il comunismo non tornerà, neppure in salsa «demokratura»: la democrazia dei paesi senza democrazia (un regime a cui l'Occidente, caduta la stella dei Trump, dei «pieni poteri» a leader semianalfabeti e dei vaffisti allo sbaraglio, è scampato per un pelo). Gli orsi umani si devono rassegnare: cosa fatta, libertà compresa, capo ha. Gli orsi propriamente detti, che come tutti gli animali domestici ignorano d'essere animali ma pensano d'essere umani, avevano diritto di restare in compagnia dei loro padroni, che li sfamavano in cambio di qualche balletto, invece di finire nei Gulag delle associazioni animaliste. Gli orsi umani no. Gli umani hanno il dovere di badare a se stessi, di procurarsi da sé il il cibo e di ribellarsi a chi si proclama loro padrone: essere liberi, per gli umani, non è una disgrazia, è la loro condizione naturale («creati eguali, essi sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra questi la vita, la libertà e il perseguimento della felicità»). Tra Putin (per capirci) e la libertà non c'è gara. «No freedom no fun», senza libertà non c'è gusto, gridavano gli studenti iraniani nelle manifestazioni dei primi Duemila. Eppure eccoli lì, i nostalgici del comunismo. Com'era bello il mondo quando a decidere ogni cosa, a prendersi ogni responsabilità e a mettere ogni giorno il pappone in tavola non erano gli orsi alla catena ma gli zingari al potere. Tra loro c'è persino chi rimpiange la Cayenna albanese: nazionalstalinismo paranoico e, sparsi sull'intero territorio nazionale, qualcosa come 750 mila bunker antiatomici (oggi trasformati in stalle, alcove, taverne, e grossi bidoni della spazzatura). Cè anche chi confida ora e sempre nei Fratelli Provvidenza: Raúl e Fidel Castro (una donna, Mirurgia, «ha il simbolo della stella della rivoluzione cucito sul bavero del tailleur la foto di Fidel nel portafogli. Ce la mostra: Fidel, ancora giovane, con la barba brizzolata e il sigaro»). Siamo nel 1914, nel Donbas, al confine tra Ucraina e Federazione Russa, e «lì parlano russo, ancora oggi rimpiangono l'Unione Sovietica, dicono che era un paese fantastico e tutti avevano un lavoro. Ma che in Urss, negli anni trenta, Stalin abbia fatto morire di fame dieci milioni di ucraini, questo non interessa a nessuno!» . Nell'ex Jugoslavia, sempre una decina di anni fa, il criminale di guerra Radovan Karadzic, presidente della repubblica nazicomunista di Serbia-Croazia dal 1992 al 1995, viveva sotto falso nome a Belgrado: diventato uno stregone da luna park, campava praticando, dopo aver professato e in parte eseguito l'«estinzione del popolo musulmano», la «medicina alternativa» (c'era e c'è chi rimpiange, insieme al comunismo, anche i tempi felici della pulizia etnica e delle campagne di stupro). A Tiflis, in Georgia, la città natale di Peppone, c'è il museo dedicato a Stalin, forse il massimo mostro novecentesco (anche se con Hitler e Mao è una bella gara). Ci sono, a guardia delle sale che espongono varie sue reliquie, alcune vestali dello stalinismo. Una si confessa: a volte, passando davanti al suo ritratto, le vengono dei pensieri impuri. Sospira: «Quando mai un uomo si preoccupa se una donna piange? I georgiani sono così: bevi vodka, penetri, finisci alla svelta e ti addormenti. Io i bevitori non li sopporto. Ma [... ] Stalin è un'altra cosa. Una persona ammodo. Lui sapeva come prendersi cura d'una donna, come fare un complimento, come avere un buon odore. Viveva con modestia, ma si vestiva elegante. E non beveva troppo. E se beveva, beveva solo liquori esteri, di qualità». Ci sono orsi danzanti in tutto l'est europeo e ovunque la pandemia comunista abbia seminato vittime e contagiato popolazioni intere (un solo vaccino: la libertà, anche se alcuni lamentano effetti indesiderati). Ciò che s'intende con «comunismo», tra nostalgici dell'ancien régime, è la società dei pasti magri, o meglio magrissimi, ma gratis. Un mondo in cui non si hanno opinioni (soprattutto eretiche) ma reddito di cittadinanza, «superbonus» e pensioni senza copertura contributiva. È la stessa cosa che intendono, da noi, gli elettori e i politici populisti: vivere senza pesi morali, e senza l'obbligo di guadagnarsi il pane, alle spalle di chi paga le tasse, finché ci sono ancora redditi da tassare. Non sono infatti soltanto gli abitanti di queste «Terre della Transizione», scrive Szablowski, «a flirtare» con chi promette «d'alleggerirti le spalle da ogni responsabilità» e che «tutto tornerà come prima»: la nostalgia della mordacchia è un sentimento universale. «Anche mezzo Occidente», infatti, «amoreggia con quelli che hanno capelli scompigliati» — tipo Beppe Grillo e Matteo Salvini — «e niente da offrire se non promesse senza garanzie. Queste promesse le avvolgono in una carta luccicante e fanno finta che dentro ci sia una caramella. E la gente, per questa caramella, si alza sulle zampe posteriori e inizia a ballare».