Dalla Russia dei Soviet a quella di Putin Analisi di Carlo Nordio, recensione di Diego Gabutti
Testata:Il Messaggero - Italia Oggi Autore: Carlo Nordio - Diego Gabutti Titolo: «Quell'altro 8 marzo che accese la Russia - Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura»
Riprendiamo dal MESSAGGERO di oggi, 06/03/2022, a pag.19 con il titolo "Quell'altro 8 marzo che accese la Russia", il commento di Carlo Nordio; a seguire la recensione di Diego Gabutti pubblicata su ITALIA OGGI.
Ecco gli articoli:
Carlo Nordio: "Quell'altro 8 marzo che accese la Russia"
Carlo Nordio
Generalmente, l'8 di marzo, celebriamo la festa della donna. Ora invece preferiamo ricordare un evento le cui conseguenze si trascinano fino ad oggi, nella selvaggia repressione russa in Ucraina. Perché quel giorno, nel 1917, iniziò a Pietrogrado una rivolta che presto sarebbe diventata rivoluzione, e che avrebbe portato al potere una dittatura sanguinaria e crudele quanto quella, quindici anni più tardi, della Germania hitleriana. Il regime bolscevico che ne segui durò assai più a lungo, e i suoi residui funesti rivivono oggi nelle sembianze di un ex ufficiale della sua polizia segreta, che fa strage di civili e minaccia il mondo della catastrofe nucleare.
LA MOBILITAZIONE In quegli anni la Russia zarista era logorata da una guerra infinita e ormai insopportabile: il popolo era immiserito e affamato; l'esercito era decimato e allo sbando; il territorio era in parte invaso e devastato; la repressione del dissenso era implacabile e crudele; e infine il sovrano, Nicola II, era inviso per la sua inettitudine e screditato da una moglie fanatica succube di Rasputin, un monaco ciarlatano e pervertito. La rivoluzione, i cui presupposti maturavano da tempo, iniziò con episodio apparentemente casuale, una modesta slavina destinata a diventare una inarrestabile valanga. L'8 di marzo vi fu uno sciopero di operai, seguito nei giorni successivi da quello dei giornali, e di altre categorie di lavoratori. Il giorno 11 si ammutinò un reggimento e il 12 le truppe della Guardia. In pochi giorni l'intero Paese, dai nobili ai borghesi, dai militari ai socialisti, si mobilitò in una sollevazione generale. Il 15 marzo il sovrano abdicò.
IL CAPOPOPOLO Il potere passò a un comitato della Duma diretto dal principe Lvov, poi sostituito dal socialista Alexander Kerenski, che cercò invano di rimetter ordine in uno organismo disgregato. Nel frattempo i bolscevichi, fino ad allora in prudente attesa, progettarono i colpo finale. Il loro capo, Vladimir Ulianov Lenin, in perenne esilio, fu fatto rientrare clandestinamente in patria dai tedeschi nel famoso vagone piombato per dare la spallata finale al traballante governo. «Fu mandato - scrisse Churchill - come una fiala contenente il bacillo del tifo o del colera da versare nell'acquedotto di una città: e funzionò a meraviglia». In effetti, sotto la guida di questo capopopolo incorruttibile, lungimirante e spietato, la Rivoluzione rossa trionfo. Nel frattempo i disastri militari si moltiplicavano, e alla fine di luglio il fronte collassò. Assunto il potere, i bolscevichi conclusero l'opera con due operazioni spregiudicate. Massacrarono l'intera famiglia dello Zar, compresi gli animali di casa, e stipularono con la Germania una pace a condizioni gravose, ma accettabili. La Russia cedette vari territori, e si dedicò a costruire il comunismo integrale. Alcune di quelle terre oggi sono rivendicate da Putin, come se un secolo fosse passato invano. Ma l'attuale satrapo del Cremlino invoca alternativamente, secondo i suoi interessi, la tradizione della Santa Madre Russia zarista e quella della sovranità limitata di Brezneviana memoria.
LA PROPAGANDA Fu così che a un regime reazionario e bigotto si sostituì l'utopia visionaria e apocalittica della fede marxiana, ispirata a una dottrina che negando i Paradiso celeste mirava a quello terreno, e promettendo agli ultimi di diventare i primi avrebbe livellato entrambi in una miseria materiale e morale. Il comunismo era cosmopolita, militante e propagandista, e il suo esaltato profeta era disposto a sacrificare milioni di vite, compresa la sua, per l'attuazione di questa mistica palingenesi. Nessuno obiettò che Carlo Marx aveva in realtà previsto, se non auspicato, un epilogo diverso: la rivoluzione sarebbe esplosa dopo un'adeguata transizione dal feudalesimo al capitalismo borghese, che impoverendo progressivamente il proletariato lo avrebbe lasciato in possesso solo delle sue catene da spezzare. L'Unione Sovietica passò direttamente dall'assolutismo paternalistico del sovrano a quello burocratico del partito, come successivamente avrebbero fatto la Cina, e tutti i Paesi dove la Rivoluzione si affermò dall'interno. Nell'Urss, il costo pagato dalla popolazione fu enorme. Intere generazioni di contadini morirono di fame e di stenti a causa della collettivizzazione forzata, della crudeltà degli aguzzini e dell'incapacità dei pianificatori. Lenin iniziò un timido tentativo di privatizzazioni, interrotto dal fanatismo degli ideologie infine dalla sua morte. II suo successore, Giuseppe Stalin, proseguì nella linea più rigorosa della tirannide accentratrice. Per uno spirito liberale, - come Indro Montanelli che ne teneva religiosamente un busto - l'unica consolazione è che nessuno più di lui eliminò fisicamente tanti comunisti. Accanto ai nomi di Zinoviev, Koniev e Bucharin vanno associati migliaia di funzionari civili e di decorati rivoluzionari che al minimo sospetto di infedeltà venivano fatti sparire nei sotterranei della Lubianka.
L'AGGRESSIONE L'avvento della seconda guerra mondiale ridiede a Stalin fiato, prestigio e potere. Sconvolto dall'inattesa aggressione di Hitler nel giugno del 41, il dittatore scomparve per giorni dalla scena, e molti pensarono al peggio. Vi rientrò spinto dalla risoluzione dei generali e dal suo istinto di sopravvivenza, e riacquistò vigore appellandosi, come oggi Putin, alla tradizione culturale e persino religiosa della grande madre Russia. I nazisti, crudeli quanto stupidi, entrarono in Ucraina accolti come liberatori, ma presto si fecero odiare per i pogrom, le stragi e le rappresaglie. A Babi Yar in tre giorni massacrarono più di trentamila ebrei, principalmente donne e bambini. II mausoleo in loro memoria pare sia stato in questi giorni bombardato da Putin, a dimostrazione che comunismo e nazismo, braccio teso e pugno chiuso, gulag e lager, si distinguono solo per ingannevoli immagini e un illusorio sillabario fonetico.
L'IPOTECA Alla fine Stalin, al prezzo di 20 milioni di morti, ricacciò i nazisti fino a Berlino, e alla conferenza di Yalta, approfittando dell'incapacità psicofisica di Roosevelt, impose sull'Europa dell'Est una gravosa ipoteca politica e militare. Da Stettino sul Baltico a Trieste sull'Adriatico- disse Churchill a Fulton - una cortina di ferro era scesa sull'Europa. Negli anni seguenti si ribellarono un po' tutti; i berlinesi nel '53, gli ungheresi nel '56, i cecoslovacchi nel '68, i polacchi nell'80. Furono tutti schiacciati dai carri comunisti in ossequio a quella che Leonid Brenev chiamava, appunto, sovranità limitata. Quella stessa che oggi Putin pretende sull'Ucraina e che presumibilmente vorrebbe imporre agli altri ex satelliti, se non fossero provvidenzialmente protetti dalla Nato.
Diego Gabutti: "Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura"
Diego Gabutti
Carlo Nordio, Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura, Guerini e Associati 2022, pp. 192, 18,50 euro, eBook 9,09.
Non saranno i referendum a salvarci. Imperfettamente e incomprensibilmente formulati, come li pesa e giudica il magistrato in pensione Carlo Nordio nel suo nuovo libro, Giustizia ultimo atto, difficilmente raggiungeranno il quorum, e anche se lo raggiungessero, be’, ci vuol altro per fare giustizia della pessima giustizia in Italia. Ma si vinca o si perda, sono un chiaro messaggio, questo sì: urge «una rivoluzione copernicana» del sistema giudiziario. Nell’attesa (che sarà lunga, speriamo non lunghissima) Nordio ripercorre tutta la storia dei felloni di Tangentopoli e dei prodi paladini di Mani Pulite (così la vulgata) a partire dall’arresto di Mario Chiesa, beccato con una mazzetta nelle mutande. Sette milioni di lire. Milano. È il 17 febbraio 1992. Liquidato troppo in fretta da Bettino Craxi come «mariuolo», una bella parola purtroppo in disuso, Chiesa e le sue allegre mutande fanno da prologo allo smisurato feuilleton giudiziario, uscito a puntate quasi quotidiane per trent’anni, di cui oggi sfogliamo gli ultimi capitoli: il Caso Palamara, la Caduta della Procura Milanese, la stizza del Fatto quotidiano. Magistrato esperto e di larga fama, giurista provetto, protagonista d’inchieste memorabili, dallo smantellamento della colonna veneta (brutta gente) delle Brigate rosse all’affaire MOSE, Carlo Nordio è anche un grande narratore. Giustizia sommaria è una storia del finimondo giustizialista in Italia come l’avrebbero raccontata a quattro mani Edgar Wallace e Honoré de Balzac. Che è poi anche il modo più serio e puntuale di raccontarla: personaggi per lo più stereotipati ma anche imprevedibili, una cornice surreale, storie labirintiche, colpi di scena, farse, tragedie, suicidi, la Società dei Tredici, i Quattro Giusti, «Parigi, a noi due». Come nei feuilleton, ci sono episodi terrificanti, tra questi il momento in cui passa l’idea, mezza Italia benedicente, che un indagato può finire dietro le sbarre a tempo indeterminato, finché non confessa ogni addebito. Non basta, però, che ammetta il suo reato: deve anche coinvolgere qualcun altro, di preferenza pezzi grossi della nomenklatura e dell’industria, o agli occhi di GIP e PM apparirà ancora compromesso con la vecchia ghenga criminale (roba che neanche l’ispettore Javert con Jean Valjean, o Ginko con Diabolik). Ci sono «le intercettazioni in cui un magistrato dice che Salvini è innocente ma bisogna attaccarlo» (à la guerre comme à la guerre). C’è, alla fine del romanzo, l’«incredibile» destino «dolceamaro» di Luca Palamara: «Dolce, perché è diventato uno scrittore di successo […] e medita una carriera politica. Amaro, perché è stato radiato dalla magistratura». Anche se «ben più amara», naturalmente, «è stata la condotta del CSM. La condotta di quest’organo è infatti pericolosamente simile a quella del generale Fromm, che la sera del 20 luglio 1944, quando fu evidente il fallimento dell’attentato a Hitler, convocò in tutta fretta una corte marziale, condannò a morte e fece fucilare il colonnello von Stauffenberg e altri congiurati. Fromm non cercava giustizia, ma solo impunità. Temeva che questi ufficiali rivelassero che anche lui faceva parte del complotto, o comunque ne conosceva l’esistenza. Alla fine fu eliminato anche lui». C’è Piercamillo Davigo che, alla domanda di Bruno Vespa, se gli è mai capitato di mettere o di tenere in galera un imputato per farlo parlare, risponde in tono «secco e sdegnato: “Mai!”» Nordio non lo nomina neppure – perché ci sono cose semplicemente inenarrabili, da mettere i brividi anche al più trucido degli scrittori horror – ma abbiamo avuto al ministero della giustizia niente meno che Alfonso Bonafede, terrore dei prescritti, in arte «DJ Fofò». Ci sono, nel romanzo di Mani pulite, anche episodi romantici, stile Beautiful: Ilda Boccassini che «scrive un libro autobiografico nel quale narra d’una notte passata in aereo appoggiata alla spalla di Giovanni Falcone ascoltando Gianna Nannini, sorprendendo chi riteneva che una personalità così imponente non scendesse sotto il livello delle partite per violino di Bach». Scrive Nordio: «Sempre più esausto e confuso, il lettore si domanderà» se stiamo raccontando «una comica favola di Rabelais o un truce dramma elisabettiano». Risposta: l’una e l’altro. Finora l’ignominiosa storia dei corrotti (dei socialisti infami, del perfido Berlusconi, della Casta colpevole fino a prova contraria e oltre) era stata raccontata dal fan club progressista e populista dei magistrati impegnati nella crociata giudiziaria: memorialisti interessati e intoccabili, gazzettieri collaborazionisti, magistrati narcisisti, politici pavidi che per mezzo voto in più bacerebbero qualunque pantofola (o peggio). Non era la storia vera. Erano prediche dal pulpito mediatico, e guai a confutarle: piovevano querele e anatemi. Nessuno voleva sentire la vera storia di Mani Pulite e tanto meno crederci. Eppure era storia nota, fritta e rifritta: la Justice League, come nei fumetti di supereroi e nei blockbuster cinematografici, aveva preso il controllo del pianeta, minacciato da supercriminali e invasori alieni, da Cavalieri Neri e Cinghialoni, ai quali opponeva superforza, supervista e il più irresistibile dei superpoteri: «l’obbligatorietà dell’azione penale» e la facoltà di «punire tutto inventandosi una marea di reati». Mario Chiesa, tornando a lui, non era naturalmente il primo politico sorpreso con le brachette in mano. Gli amministratori pubblici della sua epoca, oltre che personalmente esposti alla tentazione che notoriamente fa l’uomo ladro, erano anche tenuti – qualcuno dice allora come oggi – a raccogliere soldi per il partito. Ai partiti servivano soldi per pagare l’affitto delle sedi, per sostenere apparati kolossal, per stampare volantini (e pubblicare giornali) che nessuno leggeva, per allungare uno «stipendio dignitoso» ai funzionari. Di qui il do ut des con le aziende che campavano (e ancora campano) di contratti pubblici: io ti faccio vincere il concorso con un magheggio, per l’appalto tu incassi un tot dalla ragioneria dello Stato e me ne giri una parte, dopo di che contento tu, contento io. In seguito si farà e anzi ancora si fa differenza tra chi ruba per se stesso e chi, «più nobilmente», ruba per il partito, ma come spiega Nordio è molto peggio rubare per il partito: una pratica che, affidando la promulgazione e la tutela delle leggi a chi non si fa scrupolo di violarle, trasforma la democrazia in una barzelletta e lo Stato in un covo di briganti. Questo il senso di Mani Pulite (ne aveva uno) e il nocciolo di verità (c’era anche questo) di Tangentopoli. Passata la nottata della guerra fredda – quando s’era fatto, come si sarebbe poi detto, «di necessità virtù», poiché dall’URSS arrivavano al PCI valigette piene di dollari tolti di bocca ai russi affamati, e allora via col debito pubblico, e che anche l’Italia stringesse un po’ la cinghia – la malversazione elevata a sistema non aveva più scuse. Bastava smettere, però, e invece se ne fece un romanzo tra Wallace e Balzac. Allo sperpero e al latrocinio si rispose con «un sistema penale iniquo», presto diventato, «come giustamente predicava Marco Pannella, criminogeno, perché il primo giudizio sul magistrato è proprio quello dell’imputato. Se il suo giudice è troppo mite lo disprezza, se è equo lo onora, ma se è troppo severo lo odia. L’efficacia intimidatoria di una sanzione crudele non è solo pari a zero, ma è un algebrico negativo: sotto il profilo psicologico è una sollecitazione a delinquere come prima e anche peggio».
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