La guerra dei brand contro Putin Analisi di Michele Masneri
Testata: Il Foglio Data: 05 marzo 2022 Pagina: 1 Autore: Michele Masneri Titolo: «I brand contro Putin»
Riprendiamo dal FOGLIO di ieri, 04/03/2022, con il titolo "I brand contro Putin" l'analisi di Michele Masneri.
Michele Masneri
Vladimir Putin
I brand sono scesi in campo, i brand vanno alla guerra. I grandi marchi tutti compatti contro Putin sono la vera novità di questa guerra postmoderna. Per dirne alcuni: Ikea ha annunciato di aver chiuso tutti i 14 negozi in terra russa e bielorussa; General Motors, Ford, Bmw e Mercedes tutti con varie gradazioni fuggono dal colosso ormai impresentabile. Tutti i marchi del settore spedizioni (Dhl, Ups, FedEx, Maersk) non spediscono. Nell’intrattenimento, Warner Bros, Disney e Sony non intratterranno più. Apple specialmente è scatenata, da sola fa più sanzioni di von der Leyen: ha bloccato la vendita di tutti i suoi prodotti, ha bloccato il sistema Apple Pay con cui tanti ormai pagano contactless. Ha poi disattivato Maps in Ucraina per non dare una mano agli invasori, e reso impossibile scaricare le app di Russia Today e Sputnik News, le due principali fonti di informazioni fake filorusse. Insomma, siamo alle prese con la Prima guerra mondiale dei brand. Non conta solo la cancellazione di tutto ciò che è russo (direttori d’orchestra e piloti di Formula 1 sono bannati anche in modo grottesco, scrittori morti sono parificati alle “french fries” diventate “freedom fries” perché la Francia non appoggiava l’invasione americana dell’Iraq dopo l’11 settembre). C’è anche qualcosa di diverso e più sottile. Semplicemente i marchi vogliono dirci qualcosa. Vogue Ucraina ha lanciato un appello perché tutte le case di moda smettano di vendere i propri prodotti in Russia. Valentino ha risposto donando inoltre 500 mila euro, Kering (la vecchia Ppr, che controlla i marchi Balenciaga, Bottega Veneta, Gucci, Alexander McQueen e Yves Saint Laurent), ha detto di aver fatto “una significativa donazione”. Adidas ha ritirato la sua sponsorizzazione alla Nazionale russa; H&M ha chiuso i negozi. Così Nike. E Yoox Net-a-porter, il colosso delle vendite online fondato da Federico Marchetti, ha sospeso le spedizioni in territorio russo. Certo bisognerà capire i russi che danni ne avranno: se non riuscire a pagare il metrò con Apple Pay sarà scomodo, per vestiti di lusso bastava il crollo del rublo che li ha resi automaticamente impraticabili. E forse per l’orribile Putin sarà tutto perfino romantico, una Russia che torna agli splendori pauperistici, i beati anni del castigo senza marchi occidentali e lussi borghesi capitalistici, coi supermercati mono-prodotto. Per loro, per i marchi, è un “à rebours” notevole. Trent’anni fa i brand, le catene occidentali, seguivano ancora la politica.
“E’ impossibile una guerra tra due paesi in cui sia presente in entrambi un McDonald’s”, si pensava, come ha ricordato il Financial Times. Era la vecchia teoria della “diplomazia capitalistica” che gli Stati Uniti avevano messo in atto con la fine dell’Urss, spingendo aziende americane identitarie ad aprire in Russia (McDonald’s e i suoi derivati: a un certo punto lo stesso Gorbaciov diventò testimonial di diversi marchi tra cui Pizza Hut). Ma allora, prima della Prima guerra mondiale dei brand, i marchi erano marchi, non avevano una personalità morale. Oggi, che assistiamo alla prima rivolta globale delle ditte capitalistiche, queste si sono umanizzate. Non c’è solo Alexa che parla con te (e oggi non ti rivolge più la parola in russo). Oggi le aziende hanno un’anima. Trent’anni fa McDonald’s non rispondeva su Instagram ai propri consumatori. In questi trent’anni, grazie ai social, i marchi vogliono piacere e chiacchierare con te: vogliono essere buoni, in senso morale. Sanno di vendere più per i valori etici che esprimono che per i prodotti che producono, e nella perenne indignazione dei social, sarebbe molto più grave che una casa di moda oggi dicesse “Sto con Putin” piuttosto che le sue scarpe perdessero la suola alla prima passeggiata. A meno che questo marchio di moda non volesse piazzarsi su mercati quali Eritrea, Venezuela, Corea del nord, cioè quelli che son rimasti fedeli al Cremlino. E’ una scelta come un’altra, si chiama posizionamento. Certo, finora eravamo abituati a vederlo su scala più piccola: battaglie civili, appoggio a tematiche “on demand”, sponsorizzazione di influencer eticamente ineccepibili. Adesso per la prima volta nella storia emerge un cattivo così globale, a sua volta un brand del male così disneyanamente malefico che dissociarsene diventa immediatamente cool. E poi vuoi mettere: noi inermi sul divano davanti alle tragiche news, infilandoci o togliendoci mutande o pigiami magari griffati, li guardiamo, le mutande e i pigiami griffati, e pensiamo che se non possiamo far niente contro l’orrendo tiranno, loro almeno stanno combattendo una guerra giusta, anche per noi.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante