Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/02/2022, a pag.29, con il titolo 'L'identità ebraica è un progetto collettivo, una condizione che impedisce l'isolamento', l'analisi di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
La copertina (Piemme ed.)
E’ una faccenda piuttosto complicata. Scomoda persino oggi. Essere ebrei non è mai stato, teoricamente, così semplice come in questo presente. In gran parte del mondo i figli d'Israele non sono più emarginati, perseguitati, disprezzati. Come non succedeva da duemila anni, hanno la possibilità di vivere in una condizione normalizzata, quella di un popolo sulla sua terra, in autonomia e libertà. Il fatto che ci siano ebrei ancora in Diaspora e altri che hanno scelto di diventare cittadini dello stato d'Israele dà un'energia dinamica, apre un dialogo che non sempre fila liscio ma è sempre fertile di idee, creatività, prospettive. Eppure, essere ebrei oggi è ancora così: una condizione che ti mette continuamente in gioco, che è una sfida quotidiana. Con te stesso/a, con il tuo passato, con quello che ti imponi di trasmettere alle generazioni successive. Essere ebrei è da sempre fondamentalmente questo: sentirsi parte di una catena di generazioni in cui rappresenti un anello minuscolo e tuttavia indispensabile. Se l'anello si rompe tutto si sfascia, si perde.
Essere ebrei significa toccare con mano in ogni gesto, pensiero, momento della vita, l'evidenza che l'identità è sempre un insieme multiforme e irripetibile: ognuno di noi è un sistema complesso perché la cifra stessa della vita è l'identità come unicità, perché ogni esemplare di qualunque specie vivente è diverso da tutti gli altri. Essere ebrei significa fare i conti continuamente con la complessità dell'esistenza. Il libro di Emanuele Fiano, intitolato lapidariamente Ebreo (Piemme) esemplifica perfettamente tutto questo e tanto altro. Racconta con sincerità come ogni storia personale debba confrontarsi con «una storia senza fine» e che in proposito non c'è nulla di più eloquente dell'immagine di Ben Gurion a testa ingiù sulla spiaggia di Herzliya, in copertina. Il padre d'Israele, colui che pronunciò la dichiarazione d'Indipendenza il 14 maggio del 1948 e che un giorno si ritirò dalla politica per andare a vivere in un kibbutz sperduto del Neghev, usava lo yoga per chiarirsi i pensieri ma soprattutto per dimostrare a se stesso che poteva sfidare i suoi 71 anni, così come qualunque posizione preconcetta, pregiudizio o sclerosi—fisica e mentale.
Partendo da questa immagine, Fiano racconta di sé e della propria storia con una limpidezza piena di esperienze e suggestioni. C'è tanta nostalgia per suo padre, Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz, che sapeva raccontare e l'ha fatto con forza e dolcezza fino a quando ha potuto. C'è, in filigrana, in tutto questo racconto, il tenere insieme la catena delle generazioni, anello dopo anello. «Non basta essere ebrei, se non pensi la tua ebraicità come un progetto, a costo di avanzare anche a testa in giù, come qualcosa che traendo forza dalla radice della tua storia, dalla tradizione e a prescindere dal tuo convincimento più intimo, conduca te e la tua responsabilità nel mondo. L'ebreo non può guardare solo a se stesso, non può guardare alla propria storia come a un libro per pochi intimi». Infatti Ben Gurion non è soltanto il vecchietto di Plonks, Polonia, a testa in giù sulla spiaggia: per capirlo basta entrare nella sua casa museo al kibbutz Sde Bogere fare un giro nella sua immensa, strabiliante biblioteca. C'è quasi da scommettere che fra gli scaffali si trovi anche Genesi dell'antisemitismo, un saggio di Jules Isaac (1877-1963), grande storico francese e pioniere del dialogo ebraico cristiano, che Sellerio pubblica oggi nella traduzione di Paolo Fai con una nota introduttiva di Luciano Canfora. Perché fare i conti con l'identità ebraica implica giocoforza trovarsi alle prese con un disprezzo teologico atavico, tenace come poche altre cose al mondo. Il saggio di Isaac è una panoramica interessante, datata ma fondamentale, una lettura indispensabile come la monumentale opera che Léon Poliakov ha dedicato alla storia dell'antisemitismo. L'odio per l'ebreo ha un'origine remota che va cercata al tempo in cui si saldò il connubio vincente fra cristianesimo e Impero: la nuova religione doveva tagliare i ponti con la radice, con quel fratello maggiore, il popolo ebraico, che era stato sconfitto dai romani e lo fa inventando la colpa del deicidio. Da quel momento in poi, i figli d'Israele diventano i custodi di quella colpa tremenda e i testimoni viventi della passione cristiana. Molti secoli dopo, l'antisemitismo moderno (con il precedente della pulizia etnica di Ferdinando di Castiglia e Isabella d'Aragona in Spagna nel 1492) innesta e rivoluziona il disprezzo con il tema del sangue, del razzismo biologico. Benché abbia sconvolto per millenni il destino del popolo ebraico, il presupposto di qualunque indagine sull'antisemitismo è che questa storia non va ascritta ai figli d'Israele. Ogni pregiudizio, infatti, riguarda chi ce l'ha e non chi lo subisce. Sono dunque l'occidente, l'Islam, la cristianità, i nazionalismi e tanto altro che vanno interrogati sulla natura, le cause, le circostanze dell'odio antiebraico, e non le sue vittime. In questo senso, leggere il libro di Emanuele Fiano accanto al saggio di Isaac risulta non solo necessario ma anche illuminante.
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