L'Ucraina non si piegò a Stalin, non lo farà con Putin
Commento di Diego Gabutti
(da Italia Oggi del 27/05/2016)
Ettore Cinnella
Non ci sarà mai modo di trasformare gli abitanti dell’Ucraina in sudditi fedeli dello zar o del segretario generale russo. Non li domò Stalin, che era Stalin, padre dei popoli, nei primi anni trenta, ai tempi della collettivizzazione delle campagne, quando anche «il contadiname» ucraino, kulaki in testa, fu espropriato di tutto. Poiché non gli furono «riconoscenti», come direbbero oggi i politici italiani amici di Vladimir Putin, gli ucraini furono lasciati morire a milioni, almeno tre o quattro. Se non ci riuscì l’URSS, che era l’URSS, attraverso un «genocidio sociale di proporzioni apocalittiche», figurarsi se la Federazione russa, con i suoi modi da nazione guappa e il suo Big Brother ’e cartone, riuscirà a piegare Kiev, come si augurano le destre europee, ieri anticomuniste, oggi filorusse. Niente potrà mai eguagliare l’offensiva dei bolscevichi contro l’Ucraina. Come racconta Ettore Cinnella, massimo storico italiano della rivoluzione russa, in uno splendido libro, 1932-33. Ucraina, il genocidio dimenticato, Dellaporta 2015, pp. 302, 18,00 euro, ebook 6,98 euro, il partito comunista sovietico, per la prima (e si spera ultima) volta nella storia universale, pianificò una rappresaglia catastrofica ai danni dei contadini che s’erano opposti alla «collettivizzazione», all’esproprio d’ogni loro bene e alla deportazione dei kulaki (i contadini «ricchi») dall’Ucraina: una carestia spaventosa, organizzata dalle autorità sovietiche, che confiscarono i raccolti fino all’ultimo seme, poi restarono a guardare mentre i nemici dello Stato operaio morivano di fame, si cibavano di carogne, divoravano i loro stessi figli e il comunismo osava quel che, fino ad allora, non era mai stato osato, nemmeno dai più spietati e disumani dispotismi asiatici («a detta di Bucharin», secondo «la versione del menscevico Nikolaeskij», che ne raccolse le confidenze a Parigi nella primavera del 1936, «alcuni comunisti avevano preferito uccidersi piuttosto che eseguire gli ordini del partito»). Stalin, per un po’, mentre stava ancora consolidando il suo potere sullo stato e sul partito, aveva alternato il bastone alla carota (enormi bastoni, minuscole carote) lanciando i suoi mastini leninisti alla gola dei contadini dell’intero paese, poi richiamandoli, quindi lanciandoli di nuovo. «Occorreva una scelta chiara e netta: o la profonda e coraggiosa revisione della politica agraria o l’impietosa condanna alla morte per fame d’una larga fetta della popolazione rurale.
La prima soluzione», scrive Cinnella, «Stalin l’aveva da tempo esclusa, optando per l’agricoltura statalizzata (sia pure con le piccole concessioni decise nel marzo 1930). Non gli restava che tergiversare, alternando il pugno di ferro a gesti di clemenza, l’intimazione di eseguire il piano a parziali deroghe. Si illuse così, per qualche tempo, di poter garantire la sopravvivenza fisica a quasi tutti i suoi sudditi (eccetto i riottosi), senza mettere in forse la nuova società basata sull’asservimento dei contadini, che egli intendeva edificare contrabbandandola per socialismo». Alla fine non ci fu più spazio per lungaggini e concessioni. Tra l’ideologia e il suo contrario, la pietà, Stalin non ebbe dubbi. Lasciò la parola alla carestia: la comune ucraina fu introdotta dal’«holomodor», che in lingua locale significa «infliggere la morte attraverso la fame». Mentre l’intero Occidente fingeva di non vedere, le ambasciate tacevano, e sul New York Times addirittura si smentivano le voci che parlavano di «difficoltà» in Ucriana, salvo poi aggiungere che «non si fanno le frittate senza rompere qualche uovo», parlò della carestia in Ucraina e dello sterminio dei kulaki il grande Vasilij Grossman (Adelphi ha appena pubblicato il suo Uno scrittore in guerra, pp. 471, 23,00 euro) in un libro memorabile, Tutto scorre…, Adelphi 2015, che nel 1970, sei anni dopo la morte dell’autore, uscì prima come samizadt e poi in un’edizione occidentale.
Ma fu lo storico inglese Robert Conquest (ex comunista, diplomatico, professore a Standford e alla London School of Economics, autore nel 1968 del Grande terrore, Rizzoli 1999, la più classica storia delle purghe e dei processi stalinisti) a raccontare gli orrori della carestia imposta all’Ucraina dai bolscevichi in un pionieristico saggio del 1986: Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica, Fondazione Liberal 2004. Cinnella ripercorre tutta la storia esplorando il carteggio Stalin-Molotov (il poco che se ne conserva negli archivi di Mosca, dove c’è un buco vistoso in corrispondenza degli anni della carestia in Ucraina) e valendosi d’altra documentazione finora inedita. Come l’ISIS, che annulla ogni tradizione estranea alla Vera Religione e riduce in schiavitù gl’infedeli che cadono nelle sue mani, il comunismo fece lo stesso sia con le tradizioni religiose dei contadini russi che con i contadini stessi, uccisi al minimo accenno di ribellione, deportati, condannati alla morte per fame, costretti a lavorare per lo stato, schiavi nelle «comuni agricole» e nei colcos. Oltre alle somiglianze con l’islamismo radicale, ci sono somiglianze anche col nostro codice penale, il più bello del mondo, come sta a dimostrare, per fare un esempio inquietante, «la categoria di “manutengolo dei culachi” (podkulačnik, in ucraino pidkurkul’nyk), nella quale rientravano quanti, a prescindere dalla collocazione sociale e dal reddito, sostenevano attivamente o favorivano i kulaki». Praticamente concorso esterno in classe nemica. E i morti, quanti furono i morti? «Finora», scrive Cinella, «non è venuto fuori nessun documento ufficiale segreto del governo sovietico dell’epoca che offra una cifra esatta della catastrofe demografica. Sappiamo solo che il censimento generale del 1937 rivelò un quadro così fosco che Stalin decise di non pubblicarne i risultati e, secondo il suo costume, di mettere a tacere i compilatori».
Diego Gabutti