Russia: la politica di aggressione di Vladimir Putin Editoriale di Maurizio Molinari
Testata: La Repubblica Data: 20 febbraio 2022 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Il ritorno della Grande Madre Russia»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/02/2022, a pag. 1, con il titolo "Il ritorno della Grande Madre Russia", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Mosca schiera quasi 200 mila uomini armati attorno all’Ucraina, sostenuti da carri armati, mezzi di artiglieria, aerei, navi e sofisticati apparati di intelligence — il più imponente contingente militare in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale — e si spinge a mostrare le proprie armi più distruttive è perché, se le due suddette istanze diventassero realtà, cambierebbero l’equilibrio di forze con la Nato sul Vecchio Continente consentendo alla Russia di tornare ad avere ciò che perse con la dissoluzione dell’Urss: un’area di influenza geostrategica lungo i propri confini in grado di trasformarsi, se necessario, in una zona cuscinetto di profondità tale da consentirle di difendersi da ogni possibile attacco terrestre proveniente da Occidente. Da oltre 20 anni al potere, Putin vi resterà almeno fino al 2036 e vuole dedicare questa seconda metà della sua “era” a porre rimedio al maggior danno creato alla Russia dalla fine dell’Urss: veder arrivare i propri potenziali avversari fino dentro i confini nazionali. Se Josif Stalin a Yalta nel 1945 aveva concordato con Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill la divisione del Vecchio Continente in due zone di influenza, e il Patto di Varsavia era poi stato creato dal Cremlino per trasformare l’Europa dell’Est in una imponente zona cuscinetto per proteggere l’Urss dal rischio di invasioni come quelle subite da Napoleone nel 1812 ed Adolf Hitler nel 1941, era all’interno degli stessi confini sovietici che sorgeva l’ultimo, estremo, vallo a protezione della Russia grazie al muro terrestre costituito dalle 14 altre Repubbliche che componevano l’Unione Sovietica: dalla Bielorussia alle spalle della Polonia al Kazakistan gigantesca trincea davanti alla Cina di Mao, fino alla Georgia avamposto sul Caucaso.
Vladimir Putin
Questa costruzione geopolitica, di stampo imperiale, basata su un mosaico di popoli e nazioni vassalle tenuto assieme con la forza a protezione della Russia storica, è andata in pezzi quando Mikhail Gorbaciov accettò nel 1989 senza colpo ferire il crollo del Muro di Berlino e la conseguente liquidazione del Patto di Varsavia e, fino al termine del 1991, anche il distacco progressivo di tutte le Repubbliche dell’Urss, con il risultato di veder la Russia consegnata alla sua dimensione territoriale più esigua. Rovesciare questa situazione significa per Putin sanare la ferita causata da Gorbaciov e ricostruire il prestigio russo in Europa ovvero rimediare alla dissoluzione dell’Urss da lui considerata il «peggiore disastro di sempre», lasciando in eredità ai successori una nazione di nuovo protagonista degli equilibri globali, capace di gareggiare senza remore e ovunque con Stati Uniti e Cina. Per riuscirci si affida alle due suddette richieste sull’Ucraina perché disegnano percorsi paralleli con un intento convergente. Da un lato infatti, chiedere alla Nato un «impegno scritto» a «fermare l’estensione ad Est» ed in particolare a «non raggiungere i nostri confini» — come i documenti e portavoce del Cremlino continuano a ripetere — significa non solo impedire a Ucraina e Georgia di aderire all’Alleanza Atlantica ma anche di assicurarsi che nessun’altra Repubblica ex Urss, dall’Azerbaijan all’Uzbekistan, dalla Moldova al Kazakistan possa farlo in futuro, obbligando la Nato a riconoscere de facto l’invalicabilità strategica dei confini dell’ex Urss, oltre i quali l’unica influenza possibile sarebbe di Mosca. Se Washington e la Nato accettassero questa condizione, come chiede il Cremlino, una nuova e più sofisticata versione della Cortina di ferro tornerebbe a scendere sull’Europa Orientale. Sancita non più solo da armi strategiche e convenzionali ma anche dal cyber. E non è tutto, perché la seconda richiesta di Putin sulla «applicazione degli accordi di Minsk» del febbraio 2015 — siglati fra Russia, Ucraina, Osce e le due Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk alla presenza di Francia e Germania — significa perseguire un’autonomia completa delle entità russofone, consentendogli di avere un legame privilegiato con Mosca pur restando dentro i confini formali dell’Ucraina. E se questo scenario dovesse avverarsi sarebbe inevitabile il conseguente interrogativo sullo status di comunità e territori russofoni esistenti in Bielorussia, Uzbekistan, Kazakistan, Georgia, Azerbaijan, Lituania, Moldova, Lettonia, Kirghizistan, Tagikistan, Armenia, Turkmenistan ed Estonia per un totale di oltre 25 milioni di anime. Ovvero, gli abitanti russofoni di queste Repubbliche ex sovietiche ora indipendenti potrebbero seguire l’esempio del Donbass e rivendicare legami privilegiati con Mosca a dispetto della sovranità degli Stati in cui risiedono, riproponendo la nascita di una nuova Grande Madre Russia nel segno di Vladimir Putin. Ci sono queste valutazioni dietro la previsione di James Stavridis, ex comandante supremo delle forze alleate in Europa, di un’escalation militare ucraina destinata a portare ad un intervento-blitz di terra russo nel Donetsk e Lugansk al fine di assicurarsi il controllo «del Sud-Est ucraino russofono» creando una «continuità territoriale con la Crimea, già annessa nel 2014, attraverso il corridoio di Mariupol». Ottenendo il risultato di far rispettare con la forza la propria interpretazione degli accordi di Minsk, punendo Kiev per essersi opposta in nome della sovranità ottenuta nel 1991 e spazzando via ogni ostacolo territoriale allo sbocco sul Mar Nero, porta al Mediterraneo. Da qui la difficoltà per Washington e i partner europei nel fronteggiare la sfida di Putin perché il duello in corso non è solo sullo status del Donbass o sui confini della Nato bensì sulla rinascita strategica della Russia che, avvenendo, potrebbe innescare conseguenze a catena dai Balcani al Medio Oriente, dal Baltico al Nordafrica. Forse è questo il motivo che spinge la Finlandia a bussare con una certa insistenza alle porte della Nato: teme il ritorno dei fantasmi del Novecento.