La crisi ucraina come fase di un processo totalitario russo-cinese in Asia
Analisi di Antonio Donno
La tattica dilatoria sapientemente applicata da Teheran nei negoziati di Vienna sta dando i suoi frutti. Pur di raggiungere un compromesso con gli iraniani, gli Stati Uniti stanno progressivamente retrocedendo dalle precedenti posizioni che sembravano un punto fermo nell’approccio americano alla questione del nucleare con il regime degli ayatollah. Biden ha rimosso alcune sanzioni relative al contributo che imprese straniere possono dare allo sviluppo di progetti civili legati al nucleare iraniano. L’esito di questo annullamento di parte delle sanzioni dovrebbe essere, secondo il piano americano, il ritorno all’impostazione originaria del Joint Comprehensive Plan of Action (Jpcoa), firmato da Obama nel 2015 e annullato da Trump nel 2018. L’Iran, tuttavia, ha già detto che queste misure “sono buone, ma non sufficienti”.
L’affermazione iraniana ha un significato ben preciso. Teheran ha ora in mano la situazione, perché si è resa conto che le concessioni americane sono un segno di debolezza e che è evidente che un’ulteriore richiesta da parte iraniana porrebbe Washington in una situazione ricattatoria: “prendere o lasciare”, in questo caso, non si applicherebbe alla parte iraniana, ma paradossalmente a quella americana. Il rifiuto americano non mette per nulla in difficoltà il regime iraniano, perché esso continuerebbe a sviluppare la sua politica di arricchimento dell’uranio senza dover dar conto a nessuno. Quale sarebbe, in questo caso, la reazione americana? Il puro e semplice ritorno alle sanzioni di Trump, con qualche accentuazione, ma, come è noto, Teheran ha resistito alla grave situazione economica determinata dalle sanzioni di Trump senza batter ciglio, nonostante il malcontento popolare. Se gli Stati Uniti di Biden, per ritorsione, dovessero ripristinare quelle sanzioni, o aggravarle, Teheran, allo stesso mondo, non cederebbe di un solo passo e continuerebbe nel suo progetto, ormai molto avanzato, di giungere al nucleare.
Quindi, al di là delle sanzioni economiche e di altro tipo, agli Stati Uniti e agli altri Paesi presenti a Vienna che cosa rimarrebbe da fare? Il regime sa bene che per gli Stati Uniti non ci sarebbero alternative in grado di far recedere Teheran dal suo progetto nucleare. La situazione dei negoziati di Vienna è totalmente nelle mani dell’Iran. C’è da considerare anche che la controparte iraniana è costituita dal “5+1” (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, più la Germania). Se i negoziati di Vienna dovessero fallire – cosa che non allarmerebbe minimamente Teheran – il sestetto potrebbe sciogliersi, evento che metterebbe Russia e Cina in una posizione di libera determinazione della propria politica nei confronti del regime iraniano. Il che sta già avvenendo da tempo. Teheran e Pechino hanno firmato un accordo venticinquennale sull’approvvigionamento di petrolio iraniano alla Cina e su altri aspetti economici, per la qual cosa i proventi che ne derivano per le casse di Teheran aiutano non poco il regime degli ayatollah a parare, almeno in parte, le ricadute negative derivanti dalle sanzioni americane.
Vladimir Putin
Gli accordi economici tra Iran e Cina fanno parte della politica globale di Pechino nei confronti dell’Occidente. Legare a sé l’Iran consente al regime comunista cinese di avvicinarsi al Mediterraneo a ovest e al Golfo Persico e al Mare Arabico a sud, con grande preoccupazione da parte dell’India, nemica storica della Cina. La nuova “via della seta” avrebbe implicazioni geopolitiche di straordinario rilievo nell’assetto politico internazionale. Tutte le situazioni di crisi che vanno verificandosi in Asia giocano a favore di Pechino nella sua ambizione di divenire il centro politico del pianeta. La visione planetaria della Cina va verso Occidente sulle vie dell’Asia Centrale, in attesa che eventi favorevoli si sviluppino anche ad Oriente, nel Pacifico, dove Washington possiede punti fermi, costituiti dalla Corea del Sud, dal Giappone e da Taiwan. La minaccia cinese incombe su Taiwan, da sempre considerata parte integrante della Cina, esattamente come l’Ucraina è considerata dalla Russia di Putin territorio storico della Russia. Come si vede, Russia e Cina utilizzano gli stessi strumenti politici per rivendicare parti dell’Asia ritenuti storicamente come propri. In questo contesto, suonano alquanto deboli le speranze espresse da Bennett a proposito della crisi ucraina: “Non siamo contrari a un accordo se è un buon accordo”. Buono per chi?