Olimpiadi di Pechino: Xi, Putin e la gara contro i diritti Analisi di Gianni Vernetti
Testata: La Repubblica Data: 07 febbraio 2022 Pagina: 1 Autore: Gianni Vernetti Titolo: «Olimpiadi di Pechino: Xi, Putin e la gara contro i diritti»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA online di oggi 07/02/2022, con il titolo "Olimpiadi di Pechino: Xi, Putin e la gara contro i diritti" l'analisi di Gianni Vernetti.
Gianni Vernetti
Le Olimpiadi di Pechino hanno già ottenuto un primo risultato: ampliare il divario e la distanza fra democrazia e autocrazie. All'apertura dei Giochi invernali Xi Jinping e Vladimir Putin hanno confermato la loro intesa rivolgendo, di fronte ad una ristretta platea di pochi satrapi, un messaggio minaccioso all'Occidente. Per la prima volta la Cina ha parlato direttamente dell'Alleanza Atlantica chiedendo la fine della sua espansione verso l'Est dell'Europa ed ha attaccato l'Occidente pretendendo la fine di ogni azione di promozione della democrazia, di globalizzazione dei diritti e di sostegno alle richieste di libertà dall'Ucraina, alla Georgia, al Kazakistan. Xi Jinping parlava dell'Ucraina pensando a Taiwan e attaccava la Nato pensando all'Indo-Pacifico, al Quad e ad Aukus, le due alleanze in corso di formazione fra le democrazie asiatiche di Giappone, India, Australia con gli Usa e la Gran Bretagna. Il disonore olimpico ha avuto il suo culmine nell'utilizzo della giovane atleta di origine uigure Dinigeer Yilamujiang, usata per l'accensione della torcia nella serata di inaugurazione della ventiquattresima edizione dei Giochi invernali. Non c'è traccia né di spirito, né di ideali olimpici, quando si usa un'atleta come cavia per dimostrare la benevolenza del regime e per negare ancora una volta l'efferato genocidio in corso contro la minoranza uigura e la trasformazione della regione del Xinjiang in una gigantesca prigione. Nelle scorse Olimpiadi estive di Pechino, nel 2008, fu invece la volta del Tibet: nelle settimane che precedettero i Giochi, il giro di vite imposto dalle autorità con la riduzione ulteriore delle libertà culturali, politiche e religiose sul tetto del mondo, indusse 129 tibetani, gran parte dei quali monaci, alla scelta estrema dell'auto-immolazione. Ma neanche 129 Jan Palach sul tetto del mondo furono sufficienti a far cambiare opinione al Comitato olimpico internazionale che per la prima volta nella storia ha assegnato due volte alla stessa città di Pechino i Giochi. Con questi precedenti, la credibilità stessa del Cio è messa a dura prova, a cominciare dal suo presidente Thomas Bach, che poche settimane prima dell'inizio dei Giochi ha cooperato con Pechino per far apparire come normale il sequestro di Stato della tennista Peng Shuai, colpevole di aver denunciato uno stupro da parte di Zhang Gaoli, ex vice primo ministro della Repubblica popolare cinese. In questa triste Olimpiade senza pubblico e senza neve gli atleti sono sorvegliati giorno e notte e non è loro permesso esprimere alcuna opinione in libertà: "Qualsiasi comportamento o discorso contrario allo spirito olimpico, in particolare alle leggi e ai regolamenti cinesi, è soggetto a punizione", ha affermato Yang Shu, del comitato organizzatore di Pechino. Il livello di pervasività del sistema di controllo e sorveglianza cinese è tale che forse questa volta non ci sarà un Jesse Owens che, con le sue quattro medaglie d'oro nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, fece infuriare Hitler ridicolizzando la superiorità della presunta razza ariana. E non ci sarà neppure un Tommie Smith né un John Carlos a rivendicare i diritti della minoranza afroamericana con il pugno chiuso e il guanto nero sul podio di Città del Messico del 1968. Più che ad una tregua olimpica, assisteremo ad un silenzio olimpico che coprirà in modo soffocante le poche voci ancora libere di Hong Kong, del Tibet, del Xinjiang e di tutta la Cina.
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