Ricordare la tragedia delle foibe Commento di Elisabetta De Dominis
Testata: Libero Data: 07 febbraio 2022 Pagina: 16 Autore: Elisabetta De Dominis Titolo: «Le prove contro i negazionisti delle foibe»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 07/02/2022 a pag.16, con il titolo "Le prove contro i negazionisti delle foibe", il commento di Elisabetta De Dominis.
Una foiba
«Libero», in associazione con l'Unione istriani e la piattaforma per scrittori «Kepown» ha organizzato «Raccontare per ricordare», il primo concorso letterario dedicato all'esodo giuliano-dalmata. La rassegna è aperta anche a chi non ha vissuto la tragedia. Dal 10 febbraio fino al 15 settembre potete pubblicare i vostri racconti su www.kepown.it. Una giuria prestigiosa sceglierà i migliori: gli autori vinceranno un soggiorno in Istria e Dalmazia offerto dall'Unione istriani e da «Kepown» e la pubblicazione dei loro scritti. In queste pagine alcune testimonianze della tragedia dei profughi.
Ma cosa abbiamo fatto, noi italiani, del nostro passato? E passi per la storia della nostra nazione che pochi conoscono, ma come si fanno a dimenticare la propria famiglia, i propri morti e le loro storie? Enea fugge da Troia in fiamme portandosi l'anziano padre sulle spalle e i Penati sotto il braccio. L'ascendenza è la conoscenza del dove vengo per sapere cosa voglio e dove voglio andare. Perché quando tutto viene meno, ciò che ci sorregge è il ricordo di chi ci ha preceduto e ha costruito il nostro senso di appartenenza conferendoci la certezza di un'identità. Che è orgoglio per una cultura familiare radicata in un territorio e legata da vincoli di parentela. Il culto degli antenati è stata la prima religione di Roma, una questione intima e pertanto privata. Poi il culto è diventato rito pubblico e infine mera ostentazione; ora è rimasta solo l'ostentazione individuale senza il culto. Esiste unicamente il presente, ciò che siamo, e spesso ci si vergogna del proprio passato familiare.
LE TOMBE Ci vergogniamo dei sacrifici e degli sforzi che hanno fatto i nostri genitori e nonni per farci diventare quello che siamo. Figurarsi allora con quanto fastidio molti ascoltano le tragiche vicende patite dagli ebrei o dagli armeni o dagli esuli istriani, fiumani e dalmati. Storie che consideriamo lontane, che non ci riguardano, perfino quando narrano dei nostri genitori. Molti di noi si dimenticano delle tombe dove essi giacciono. Invece gli Istriani no. Non se ne dimenticarono. Molti di loro prima di fuggire verso la libertà che si chiamava Italia, correvano nel cimitero e prendevano con sé anche le salme per non lasciarle in mano agli jugoslavi, gente di altra cultura, con altre tradizioni. Infatti comunisti o non comunisti, perché ormai di comunisti ci sono pochi in Slovenia e Croazia, avendo vinto l'amore per il possesso, si sono impossessati non solo delle nostre case ma anche delle nostre tombe, le hanno svuotate, e con la tracotanza del predone vi hanno apposto intanto il loro nome con la data di nascita, assicurandosi pure l'ultima dimora. E si stanno impossessando perfino della nostra storia modificando spudoratamente i fatti storici, i cognomi italiani e i toponimi. Non avendo un passato storico in Istria e Dalmazia, rubano il nostro. Poi dai negazionisti ci sentiamo dire di lasciare la storia agli storici. Ma la storia siamo noi, esuli e figli di esuli che abbiamo visto e sappiamo. E in questo tempo che diventa per noi sempre più breve abbiamo il dovere di confutare e raccontare per lasciare testimonianza. I nostri genitori non ci hanno raccontato niente di quello che per anni hanno patito nei campi profughi. Avevano 15, 16, 17, 18 anni o anche meno, comunque l'età più bella, e non si sono mai lamentati che lo Stato gliela portava via, come abbiamo sentito dire da molti giovani durante questa pandemia perché dovevano stare confinati a casa, spiaggiati sul divano. I nostri genitori non raccontavano, perché come scrisse Seneca: «Lieve è il dolore che parla, il grande è muto». La consapevolezza e l'orgoglio delle proprie origini è stata la forza d'animo degli istriani e dei dalmati. Quando erano ormai in esilio, la prima informazione che chiedevano di una persona in cui venivano in rapporto riguardava la sua origine: «Come nasce?», proprio per accertarsi che stessero creando una frequentazione con qualcuno che aveva gli stessi usi e costumi, la stessa educazione familiare. Per chiedere l'iscrizione nel più noto club nautico triestino, retto da note famiglie di velisti istriani e dalmati, fino a pochi anni fa, ora non so, bisognava elencare per iscritto la propria ascendenza e dichiarare che non ci fosse stato nessun comunista in famiglia. La necessità di identificarsi nasce dal bisogno di riconoscersi simili per comprendersi. Pur ammesso che non venissero trucidati, come gli istriani e i dalmati avrebbero potuto rimanere in un paese invaso da barbari scesi dalle montagne dinariche, che entravano a casa tua armati e ti rubavano anche il sapone? Come scrisse Enzo Bettiza in Esilio. Chi è rimasto, ha vissuto soffrendo silenziosamente. Perché non era solo povero, come la maggior parte del popolo jugoslavo, ma doveva dissimulare di essere italiano.
GLI ARCHIVI Gli Istriani e i Dalmati scelsero di abbandonare tutto perché avevano chiara la certezza di chi fossero: italiani. E sapevano cosa volevano: vivere liberi in una terra italiana, abitata da italiani, dove poter parlare italiano e avere tradizioni e cultura italiani. In una parola hanno scelto qualcosa di effimero come l'identità italiana piuttosto che qualcosa di materiale come una casa e della terra rinnegando di essere italiani. Ma, come dicevamo, sapere cosa si è conferisce una forza d'animo che fa attraversare i mari. Le radici sono dentro di noi. Di tutta la schifosa vicenda del negazionismo delle foibe la cosa più odiosa è la pretesa di contraddire le testimonianze degli esuli. L'istituto della testimonianza è previsto dalle leggi di qualsiasi stato; pertanto non si capisce perché si debba tollerare dopo l'inganno la beffa di questi omuncoli che, dichiarandosi storici, esprimono delle falsità arroccandosi sulla pretesa di esercitare la libertà di espressione. Ora voglio proprio vedere come potranno confutare Roberto Spazzali che ha scritto quasi 600 pagine sull'esodo in massa del novanta per cento della popolazione di Pola, che era quasi completamente italiana, basandosi su documenti d'archivio per ristabilire la verità storica dei fatti. Il volume è stato realizzato in collaborazione con l'I.R.C.I., Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata, per il quale Spazzali è ricercatore dai primi anni '90. In Pola Città Perduta. L'agonia, l'esodo (1943-1947) (Edizioni Ares, euro 25) descrive come venne organizzato l'esodo dal vice prefetto Giuseppe Meneghini e un manipolo di persone in meno di un anno prima che Pola passasse in mano a Tito.
Per inviare a Libero la propria opinione, telefonare: 02/ 999666, oppure cliccare sulla e-mail sottostante