Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 03/02/2022, a pag. 27, con il titolo "L’eccezione tedesca", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
Annalena Baerbock
Migliaia di americani in stato di allerta non lontano dalla linea del fronte ucraino... Il primo ministro britannico in procinto di dare loro supporto terrestre, aereo e navale... La Francia che, mentre lavora alla distensione, annuncia l’invio di un battaglione in Romania... La Svezia mobilitata contro le provocazioni della Russia, con le sue navi da guerra in movimento, i suoi droni... Anche se non c’è nulla di scontato, al contrario, è la prima buona notizia dell’anno: il mondo libero (eh sì!, non dobbiamo esitare a dire “il mondo libero”!) sta reagendo alla possibilità di un’invasione dell’Ucraina — e Putin, come previsto, comincia a fare marcia indietro. C’è un’eccezione, tuttavia, a questo sussulto: la Germania, e quindi la principale potenza europea. Prima di tutto, c’è la nuova ministra degli Esteri, l’ecologista Annalena Baerbock, che il 17 gennaio, a Kiev, ha escluso il ricorso all’opzione militare lasciando alla sua collega della Difesa, Christine Lambrecht, il compito di annunciare che saranno consegnati 5.000 caschi protettivi. Poi una serie di leader socialdemocratici, come il presidente del gruppo al Bundestag o il ministro presidente del Meclemburgo-Pomerania, che dichiarano di «comprendere il senso di minaccia» provato dal Cremlino di fronte alla prospettiva di un allargamento della Nato. E la sorprendente storia dell’Estonia, che decide di consegnare a Kiev 42 cannoni D-30 prima che la Germania le ricordi che queste armi erano appartenute alla Repubblica democratica tedesca e che Berlino ha quindi il diritto di proibirne l’esportazione.
Fino al capo della Marina, Kay-Achim Schönbach, costretto a dimettersi dopo aver ripetuto l’argomento più grossolano della propaganda russa: il buon Putin che non chiede altro che di essere rispettato dai suoi cattivi vicini ucraini... Peggio ancora, riaffiora il dibattito sul famoso gasdotto Nord Stream 2, lungo 1.230 chilometri, scavato sotto il Mar Baltico e che dovrebbe fornire gas russo alla Germania e, attraverso di essa, all’Europa. C’è bisogno di dire che questo gasdotto, che segue lo stesso percorso del suo gemello, il Nord Stream 1, attivo da dieci anni, non fornirà né un’energia più economica né migliore? E che l’unico effetto tangibile di questo progetto faraonico, misteriosamente voluto da tutte le amministrazioni tedesche da vent’anni, sarà quello di aggirare la Polonia e l’Ucraina, private, se andiamo a considerarne le conseguenze, di preziose tasse di transito? E c’è bisogno di ripetere che, per noi europei, l’avventura si tradurrà in una maggiore dipendenza da una Russia teoricamente in grado, in qualsiasi momento, di chiuderci i rubinetti? Così riaffiora il dibattito. E la Nato propone al cancelliere Scholz di rinviare la realizzazione di questo gasdotto inutile e assurdo, la cui funzione principale, come non hanno difficoltà a sostenere gli ucraini, sarà quella di indebolirli. Il cancelliere finisce con l’aderire alla proposta, ma solo dopo aver fatto una gran confusione, tergiversando, sostenendo che si tratta di un «progetto privato» o facendo sapere ai suoi ministri la propria riluttanza a «trascinare nel conflitto» questo gioiello della tecnologia industriale e finanziaria tedesca. Strano... Gli alleati della Germania, a quel punto, si sforzano di fare ipotesi. Alcuni evocano (ma è così lontana!) l’eredità della Ostpolitik di Willy Brandt. Altri invocano il vecchio senso di colpa tedesco e dei tempi in cui, come diceva Paul Celan, «la morte era un maestro che veniva dalla Germania» (ma perché questo senso di colpa non dovrebbe giovare anche agli ucraini?). Altri ancora vedono in questo neopacifismo la traccia di un’ideologia, quella del “cambiamento attraverso il commercio”, il cui teorico fu, cinquant’anni fa, con Les armes de la paix, il franco-americano Samuel Pisar che, per complicare ulteriormente le cose, era anche suocero e mentore dell’attuale Segretario di Stato Antony Blinken.
Per giungere poi ai germanofobi pavlovizzati che mettono sul piatto i loro sospetti: l’ex cancelliere Gerhard Schröder, iniziatore del progetto maledetto del gas, che, missione compiuta, viene comprato da Gazprom; l’attuale capo del progetto, Matthias Warnig, ex ufficiale della Stasi e compagno di squadra del giovane Vladimir Putin; per non parlare di tre società inserite nella lista nera dell’amministrazione americana perché sospettate di aver partecipato, dal suolo tedesco, allo sviluppo di armi chimiche russe del tipo che ha avvelenato Navalny. Di fronte a questa confusione, amici tedeschi, c’è solo una soluzione.
Ricollegarsi allo spirito di Konrad Adenauer, Walter Hallstein, Wilhelm Röpke, padri fondatori, al tempo stesso antinazisti e antistalinisti, dell’Unione europea. Ricordare il muro della vergogna, attraversato sotto il fuoco delle mitragliatrici, poi caduto sotto i colpi dell’archetto di Rostropovich come le mura di Gerico al suono delle trombe di Giosuè — e poi il momento di grandezza che vi ha fatto dedicare ai naufraghi della Shoah il kaddish di pietre, color di cenere, eretto nel cuore di Berlino. Non dimenticare che siete il Paese dell’imperativo categorico kantiano, del patriottismo costituzionale di Habermas e anche, prima ancora, della gaia scienza nietzschiana che rifiuta la pesantezza di un certo spirito tedesco malato della sua potenza, del suo benessere senza speranza, della sua buona coscienza. E ascoltare quelli che, come qui, si permettono di supplicarvi: gli amici della scienza e della filologia, i devoti di Hölderlin e di Novalis, gli eredi di Thomas Mann, di Adorno e della contessa Dönhoff, gli abitanti, infine, di questa Lorelei del pensiero e della bellezza che, per dirla con Apollinaire, ha fatto morire d’amore tutti gli europei, non meritano di servire da trampolino a Putin.
(Traduzione di Luis E. Moriones)
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