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Il caso Solženicyn
Da 'Mangia ananas, mastica fagiani', di Diego Gabutti Diego Gabutti Diego Gabutti, Mangia ananas, mastica fagiani, vol. 2. Dai Processi di Mosca al disgelo e a Pol Pot, WriteUp, Roma 2022 Fra gli scrittori vi era qualche avversario irriducibile del potere sovietico. Il più rappresentativo era Solženicyn, ma anch’egli, come ha poi confessato nelle sue memorie, si guardava bene dal mettere in chiaro la sua avversione, oltre che per timore di rappresaglie, perché sapeva che non sarebbe stata accettata, forse nemmeno compresa, dai più. Non ebbi mai occasione di avvicinarlo. Ho ragione però di fidarmi del giudizio che ce ne dette un giorno Lili Brik: «E stato qui da me Solženicyn» ci raccontò. «Strano personaggio. Certo, non ha niente a che vedere con gente come noi e voi». Solženicyn era stato aiutato a emergere, ad acquistare notorietà, perfino a correggere in meglio i suoi primi lavori, da un grande poeta e magnifico organizzatore di cultura, Aleksandr Tvardovskij, una delle personalità più significative di quel periodo, cui si dovrà pure rendere un giorno giustizia dopo le sottovalutazioni di oggi. Tvardovskij non solo era comunista, faceva parte del Comitato centrale del PCUS. Proprio per questo motivo Solženicyn, che non si è mai distinto né per modestia, né per gratitudine, ha poi trovato il modo di parlarne male nelle sue memorie, pur sapendo quanto gli dovesse. Solženicyn si è, del resto, comportato allo stesso modo con altri amici e sostenitori: la solitudine in cui è finito se l’è meritata.
Giuseppe Boffa, Memorie dal comunismo
[Solženicyn?] Un nazionalista slavofilo della più bell’acqua.
Alberto Moravia (L’Espresso, Roma 8-9-1974)
[Mao, invece, lui sì che era un grande scrittore, e un vero internazionalista russo]. Consentitemi di citare il mio libro sulla Cina. Pagina 45: «Mao è stato al tempo stesso il Lenin, il Trotski e lo Stalin (ma anche il Majakovskij) della Cina».
Alberto Moravia, Impegno controvoglia
I circoli reazionari che Aleksandr Solženicyn serve tacciono sui loro veri scopi. Ma ad ogni persona non prevenuta è chiaro che l’obiettivo principale dei difensori dello sfruttamento capitalistico è quello di calunniare con ogni mezzo l’Unione Sovietica, baluardo della pace e del socialismo sulla terra, di denigrare la storia del nostro popolo, d’indebolire la forza di dell’idea comunista, di danneggiare il socialismo mondiale, che cresce e si rafforza, e di minare la reciproca comprensione e cooperazione fra i popoli.
I. Solovjov, La via del tradimento
Chi non ha sentito nominare, almeno una volta nella sua vita, opere come Arcipelago Gulag, Padiglione cancro, Una giornata di Ivan Denisovič, Agosto 1914? Pompate a più non posso dai circuiti anticomunisti, ai quali fa capo da sempre tutta una galassia editoriale e mediatica, questi tomi e pamphlet antisovietici hanno fatto il giro del mondo. A dire il vero, alcuni di questi libri sono stati stampati e, in alcuni casi, anche favorevolmente recensiti da pezzi importanti della critica sovietica, specie negli anni sessanta, egemone il krusciovismo! Ciò, a riprova della liberalità estrema, a volte eccessiva, del sistema sovietico, checché ne dicano i consunti megafoni della propaganda filocapitalista. Tutte queste opere hanno un comune denominatore, oltre alla critica spietata verso la realtà sovietica e l’ideale umanitario contenuto nel marxismo-leninismo: l’autore. Si tratta di Aleksandr Solzhenitsyn [sic].
stachanovblog.org/2017/04/02/solzhenitsynunarchipelagodimezzogne/
Ma chi potrebbe ormai leggere i Ricordi d’una casa di morti di Dostoevskij o udire l’omonima opera di Leoš Janáček senza pensare al racconto di Aleksandr Solženicyn sui lager dello stalinismo? A Solženicyn è toccata la mala sorte d’essere il primo rapsodo dell’agonia di milioni di condannati innocenti nei campi della Siberia. Di questo gli danno ora colpa burocrati e altre bertucce, che sono il travestimento degli aguzzini brutali da lui raffigurati nelle aspre «stazioni» d’Una giornata di Ivan Denisovič.
Angelo Maria Ripellino, I topi del regime
[Solženicyn] è un Dostoevskij da strapazzo. Umberto Eco (cit. in Giulio Meotti, Il Foglio, 24 agosto 2015) |
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