|
|
||
Cosa ci dice sulla politica palestinese la polemica sulle caricature di Yasser Arafat
Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
Una delle annose discussioni in quel calderone che è la politica mediorientale, riguarda il grado di democrazia in uno Stato palestinese sovrano, se mai venisse creato. Il carattere democratico di uno Stato qualsiasi è determinato principalmente da tre elementi. Primo, la frequenza e la trasparenza delle elezioni; secondo, le limitazioni dei poteri dei ministri eletti e i confini ben delineati tra il potere esecutivo, il legislativo e quello giudiziario; e terzo, il grado in cui vengono rispettati i diritti civili fondamentali, quali la libertà di parola e la libertà di riunione. Una Palestina indipendente probabilmente organizzerebbe delle elezioni secondo le regole, anche se la correttezza di queste sarebbe sempre oggetto di discussione, così come la prospettiva sempre incombente di un conflitto armato tra fazioni palestinesi rivali. Per quanto riguarda un governo onesto e responsabile che si assoggetta allo stato di diritto, ci sono pochissime prove che suggeriscono che un futuro Stato di Palestina verrebbe amministrato in questo modo. Al contrario, per tutta l'esistenza dell'Autorità Palestinese - giunta al suo 28° anno - c'è stato un flusso costante di nuovi episodi concernenti corruzione, violenza politica e violazioni dei diritti civili fondamentali da parte dei palestinesi contro altri palestinesi. L'ultimo esempio si è verificato la scorsa settimana, quando il Museo Yasser Arafat nella città di Ramallah in Cisgiordania, ha rimosso le opere d'arte raffiguranti il defunto leader dell'OLP che i lealisti consideravano “offensive”.
Il principio alla base di questo atto di censura è uno di quelli che Arafat stesso avrebbe apprezzato; protetto dall'Unione Sovietica, dove trascorse gran parte del suo tempo ad incontrare dittatori nel blocco comunista e nel mondo arabo, Arafat fu un grande ammiratore di quei sistemi di governo in cui lo Stato è l’erogatore finale di tutto quello che le persone che vivono sotto la sua giurisdizione, vedono, ascoltano e leggono. Negli Stati totalitari, le rappresentazioni artistiche dei leader sono per definizione servili. Da Giuseppe Stalin dell'Unione Sovietica a Kim Jong-un della Corea del Nord, dal “presidente Mao” della Cina al dittatore iracheno Saddam Hussein, i ritratti ufficiali di coloro che detengono un potere quasi illimitato, li mostrano invariabilmente con la loro mascella d'acciaio mentre richiedono l'amore del loro popolo, e sono anche forti e paterni e sono coraggiosamente incrollabili nelle loro convinzioni. Nel caso di Arafat, sarebbero argomenti appropriati per questo stile artistico il suo discorso del 1974 all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando portava la pistola fissata alla cintura, o una qualsiasi delle numerose occasioni in cui mostrava un segno di vittoria ai fotografi. Lo è stato di meno il caso dei ritratti di Arafat scelti per essere esposti al museo di Ramallah. Le fotografie di alcuni di loro sono state condivise su Twitter dal giornalista palestinese Khaled Abu Toameh, e la selezione in mostra potrebbe essere descritta come deludente.
C'è un ritratto di Arafat con un ramo d'ulivo stretto tra i denti, ce n’è un altro che lo mostra accanto alla Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme e un altro, sempre di Arafat, che indossa un sorrisetto spensierato sotto la sua kefiah. Se ne potrebbe dedurre che c'è una leggera presa in giro in queste caricature, sebbene nulla potrebbe essere considerato offensivo, e certamente nulla che possa essere interpretato come un insulto alla nazionalità araba di Arafat o alla sua fede musulmana: una marcata diversità dagli stereotipi antisemiti e dalla simbologia nazista dei leader di Israele che accompagnano abitualmente le caricature fatte da fumettisti arabi e persino da occidentali. Ma quando la mostra a Ramallah, intitolata senza fantasia “Palestina e Yasser Arafat”, è stata aperta al pubblico domenica scorsa, non tutte le opere hanno soddisfatto lo standard di lealtà richiesto da tale arte. Lo scopo della mostra – “Solidarietà con la Palestina e le origini del ricordo di Yasser Arafat nella comunità internazionale” – non precludeva rappresentazioni artistiche meno convenzionali, ma ciò non faceva differenza. Puntualmente è scoppiata una lite, che si è manifestata su linee ideologiche e di partito, e che ha rispecchiato le fratture nelle relazioni personali tra alcuni leader palestinesi. La mostra mancava di “onestà nel rappresentare Yasser Arafat”, ha affermato Nasser al-Kidwa, un ex Ministro degli Esteri dell’Ap ed ex capo della Fondazione Yasser Arafat, prima di essere licenziato l'anno scorso a seguito di un aspro disaccordo con il movimento Fatah. In questa occasione, però, Fatah era d'accordo con la valutazione di al-Kidwa. "L'affronto a Yasser Arafat è un insulto a tutto il popolo palestinese”, ha dichiarato, prima di lanciare una minaccia: “Chiediamo quindi alla Fondazione Yasser Arafat di rimuovere tutte le opere offensive e di scusarsi, altrimenti dovremo rimuoverle noi stessi.” Mohammad Sabaanah, un vignettista palestinese, la scorsa settimana ha detto all’organo di stampa The New Arab, di aver rifiutato un invito a partecipare alla mostra dedicata ad Arafat perché non si fidava degli organizzatori.
“Quando ho scoperto che alcuni artisti di spicco non erano stati invitati a partecipare, ho dubitato dei criteri di scelta alla base della mostra e mi sono ritirato”, ha detto. Sabaanah ha poi spiegato che c'era una “chiara confusione” tra vignette politiche e ritratti caricaturali, che sono “fondamentalmente una rappresentazione satirica di una personalità.” Sono state queste ultime rappresentazioni di Arafat ad essere state giudicate inaccettabili, secondo Sabaanah. La Fondazione Yasser Arafat, che ha allestito la mostra, nella sua stessa dichiarazione aveva insistito penosamente sul fatto che le opere d'arte incriminate non “insultano la personalità o la figura simbolica di Yasser Arafat.” Tuttavia, ha continuato, “tutte le opere esposte sono state rimosse a causa della mancanza di gradimento da parte del pubblico palestinese.” Indubbiamente, ciò che è accaduto a Ramallah è stata una vittoria per la censura. E’anche un altro forte monito sull'assenza di una cultura democratica nella politica palestinese. Neppure oggi, in un momento in cui la maggior parte delle società occidentali è amaramente polarizzata e la democrazia è respinta come un qualcosa di sopravvalutato, i nostri media non censurano le terribili caricature di Donald Trump, Joe Biden, Nancy Pelosi, Anthony Fauci o di qualsiasi altra personalità che abbia dominato i titoli delle recenti notizie . I cittadini occidentali non si aspettano che i loro leader siano trattati sempre con rispetto, né pretendono limiti su ciò che si può dire su di loro o su come vengono rappresentati. Tra i palestinesi invece, qualsiasi cosa diversa dalla venerazione acritica dei loro leader politici è considerata con sospetto. Quegli artisti palestinesi che dimenticano di censurarsi possono aspettarsi , tra qualche tempo, una visita da parte dei degli emissari di Fatah.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate |
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |