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La Repubblica Rassegna Stampa
29.01.2022 Bataclan: domande su una strage
Analisi di Emmanuel Carrère

Testata: La Repubblica
Data: 29 gennaio 2022
Pagina: 11
Autore: Emmanuel Carrère
Titolo: «Mohamed e la sindrome del paiolo»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA Robinson di oggi, 29/01/2022, a pag. 11, con il titolo "Mohamed e la sindrome del paiolo", l'analisi di Emmanuel Carrère.

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Emmanuel Carrère



1. L’accompagnatore Il 2 novembre 2015 tre automobili a noleggio partono verso le 17 da Charleroi, in Belgio, per raggiungere Bobigny, una delle banlieues parigine, verso le 20. I 10 membri del commando si dividono nelle varie macchine a seconda delle loro affinità e dei bersagli che intendono colpire il giorno seguente. Quelli del Bataclan sono nella Polo, gli iracheni dello Stade de France nella Seat. Nella macchina di testa, una Clio, sono in tre, Brahim e Salah Abdeslam insieme a Mohamed Abrini. Secondo quanto previsto, i fratelli Abdeslam, insieme ad Abdelhamid Abaaoud, che per il momento è al volante della Seat, dovrebbero farsi esplodere dopo aver ammazzato più gente possibile sui tavolini all'aperto di numerosi locali dell'11° arrondissement. E Mohamed Abrini? Per lui non è previsto nulla. Se oggi è nella gabbia degli imputati accanto a Salah Abdeslam non è perché, come lui, ha rinunciato all'ultimo momento o non è riuscito ad azionare la sua cintura esplosiva. E se si trovava al suo fianco, alla testa di quello che lui stesso ha definito «il convoglio della I morte», non era in qualità di membro del commando, ma, come dire? Di «accompagnatore»? Si, non mi viene una parola migliore. Riprendiamo. Mohamed Abrini è un amico d'infanzia degli Abdeslam. Sono cresciuti insieme a Molenbeek, inseparabili. Soprannominato "Brioche" perché per un periodo aveva lavorato in una panetteria, poi "Brink's", perché era passato al settore delle rapine, frequenta il caffè di Brahim, Les Béguines, dove i video di Daesh girano a ritmo continuo, ma non si trovano tracce di una vera e propria radicalizzazione fino a quando il fratello più piccolo, Souleymane, va a farsi ammazzare in Siria. A partire da quel momento il Corano diventa, secondo la sua espressione, il «solo amico» di Mohamed Abrini. Nel giugno del 2015 parte a sua volta per la Siria per raccogliersi sulla tomba di Souleymane, dice lui, ma anche per dividere un appartamento a Raqqa con Abdelhamid Abaaoud e Najim Laachraroui, che preparano attivamente gli attentati di novembre. Tornato a Molenbeek, passa l'autunno a noleggiare appartamenti e automobili e accompagna Salah Abdeslam in un negozio di materiali per fuochi d'artificio chiamato Les Magiciens du Feu, i maghi del fuoco (perfino il decreto di rinvio a giudizio, per sua stessa natura poco incline alle pennellate romanzesche, non ha resistito alla tentazione di usare il nome di questo negozio per il titolo di un capitolo). Sommando tutto questo, Mohamed Abrini avrebbe il profilo ideale per far parte del commando. Perché non l'ha fatto? Perché, apparentemente, l'ipotesi non è stata nemmeno presa in considerazione? Perché non ne aveva voglia, molto semplicemente? Si può capire: alcuni hanno la vocazione del martire, altri no. Ma allora avrebbe dovuto rimanersene in porto. Avrebbe dovuto abbracciare gli amici e lasciarli andare con una frase enfatica come: «Ci rivedremo in cielo, fratello». Invece no, è salito insieme a loro nel convoglio della morte. Ha fatto il tragitto con loro. Poi, lasciandoli a uccidere e morire, è rientrato a casa. E rispuntato fuori il 22 marzo 2016 all'aeroporto di Zaventem, dove una telecamera di sorveglianza lo mostra mentre spinge un carrello dei bagagli in compagnia di due uomini, fra cui Laachraoui, che pochi minuti dopo si faranno saltare in aria; ma lui no, neanche stavolta.

2. «Bisogna smetterla con la paranoia» Robusto, dall'aria apatica e al tempo stesso astiosa, Mohamed Abrini è il più patibolare fra gli imputati che hanno preso la parola a tutt'oggi. Fa anche parte di quelli che non hanno nulla da perdere. Sotto processo in Francia e in Belgio, prenderà il massimo della pena sia qui che là: inutile cercare di fare buona impressione. Di questa paradossale libertà di parola, fa uno strano uso: veemente quando si parla delle idee generali, sfuggente appena si passa ai fatti. Sulle idee generali è ispirato: «Voi dite che sono radicale, io dico che la shari'a è la legge divina, è al di sopra della legge degli uomini. Gli attentati, posso capire che si provi pena per le persone, ma sono una risposta alla violenza. E normale, quando vi ammazzano in Siria, venire ad ammazzare in Francia». I video delle esecuzioni: «Bisogna calarli nel contesto. E come i giovani che oggi seguono le serie su Netflix. E poi bisogna smetterla con la paranoia. C'erano tanti video sulla costruzione di scuole, i lavori pubblici, l'assistenza ai più poveri...». Il presidente del tribunale, abbastanza allibito: «Suvvia però, le decapitazioni...». «Ma è assurdo, pensate solo a questo! Fate lo stesso a casa vostra. Avete perfino decapitato il vostro re!». «E gli stupri sistematici delle donne yazide, trasformate in schiave sessuali?». «Voi potete chiamarli stupri, io chiamo un programma di natalità». Due ore così, a sentirsi spiegare che bisogna davvero essere prevenuti per vedere solo aspetti negativi nel massacro di 131 persone. Due ore di cui conservo, da parte mia, questa immagine potentemente onirica: una mezza dozzina di barbuti che scendono nello scantinato del catre Les Béguines per radunarsi tutti intorno a un computer ed entusiasmarsi, lo sguardo rapito, per dei video che mostrano la costruzione di scuole a Raqqa.

3. Il paiolo Ne Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio, Freud racconta la storia di un tizio che ne accusa un altro di avergli restituito bucato il paiolo che gli aveva prestato. La replica dell'accusato si articola in tre punti: 1) non mi hai prestato nessun paiolo; 2) era giù bucato quando me l'hai prestato; 3) il paiolo non era bucato quando te l'ho restituito. E questa la logica che seguono le risposte di Mohamed Abrini quando gli vengono rivolte, il giorno dopo, domande più precise sul suo ritorno dalla Siria nell'estate del 2015. Una volta attraversata la frontiera turca l'itinerario normale è Istanbul-Bruxelles, e lui d'altronde aveva quel biglietto in tasca. Allora perché passò per Londra? Perché Abaaoud, dice, lo aveva incaricato di recuperare nella capitale inglese dei soldi che gli doveva un amico. Quale amico? Quali soldi? Perché tutte quelle Sim differenti e perché attardarsi per tre giorni a girare tra Londra, Birmingham e Manchester, dove scattò numerose foto dello stadio e della stazione? Non ha tutta l'aria di una ricognizione per un attentato? «Ancora paranoia!», si inalbera Abrini. Perché, poi, invece di rientrare direttamente da Londra a Bruxelles, atterrare a Parigi? Perché chiedere a due amici di venire a prenderlo lì in macchina? E non all'aeroporto di Roissy, ma proprio a Parigi? Abrini, irritato, in un'escalation degna della storia del paiolo, dichiara in sequenza: 1) «Avevo paura di essere arrestato»; 2) «Il biglietto era meno caro»; 3) «Volevamo mangiarci un McDonald's sugli Champs-Elysées»; 4) «Avevo paura che non trovassero la strada per l'aeroporto» (il presidente, prostrato: «Eppure le indicazioni per l'aeroporto Charles de Gaulle non mancano»); 5) «Non ne so nulla, non mi ricordo e in ogni caso non sono affari vostri».

4. Nella Clio A dire il vero, ce ne freghiamo abbastanza dei viaggi a zigzag di Mohamed Abrini e delle sue giustificazioni assurde; quantomeno, frega poco a me. Quello che mi piacerebbe sapere è cosa succedeva all'interno della Clio durante il viaggio da Charleroi a Bobigny. Che cosa dicevano quei tre uomini, due dei quali erano decisi a morire e il terzo no. Se i due fratelli avevano cercato di convincere il loro amico d'infanzia ad andare fino in fondo insieme a loro, per compiacere Dio e andarsene col botto. Se erano seri e compunti oppure facevano gli scemi. Se recitavano sure del Corano o facevano battute tra di loro. Chi guidava, chi stava sul sedile di dietro. Queste domande, come tante altre, una risposta ce l'avrebbero. Due dei tre passeggeri, Abrini e Abdeslam, le conoscono queste risposte. Sono seduti nella gabbia degli imputati, uno accanto all'altro in ordine alfabetico. Uno accanto all'altro, hanno guardato il video di Brahim che salta in aria al Comptoir Voltaire. Li vediamo parlare a bassa voce, a volte ridere sommessamente. Il presidente li richiama all'ordine, come degli scolari indisciplinati. Fra qualche settimane, quando si entrerà nella ricostruzione dei fatti, parleranno?
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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