Riprendiamo da REPUBBLICA del 26/01/2022, a pag.30, con il titolo 'Il ragazzo che non sapeva le preghiere', il racconto di Lia Levi.
Lia Levi
A don Paolo il momento della chiesa piaceva più di tutto. Non solo per motivi religiosi, questo era sottinteso e persino ovvio. Gli piaceva per come vedeva i suoi ragazzi. Eccoli lì, seduti sui banchi, placati, saggi e composti come le statue dei Santi di paese, liberati dallo sciocco impulso di fare scherzi, darsi di gomito e mormorare ingiurie nell’orecchio del compagno. Ma era forse anche perché il minimo sussurro sarebbe rintronato, moltiplicato all’infinito, sotto quelle altissime volte arcane. Le vetrate poi… Quelle vetrate che di giorno erano tanto impegnate a far giocar col sole le loro tessere colorate, a quell’ora di crepuscolo abbandonavano le forze e si assopivano in una tenera tenue nebbia azzurrina. Che pace! Ma all’improvviso don Paolo fece un sobbalzo. Cosa succedeva? Gli sembrava che là in fondo uno dei collegiali si stagliasse in una positura diversa. Ma sì, quel ragazzo non si era inginocchiato come avevano fatto gli altri. Se ne stava diritto in piedi a disturbare con la sua sagoma il disegno armonioso della scena. Chi poteva essere? Don Paolo sforzò gli occhi al massimo, poi sospirò. «Il piccolo ebreo… ecco chi era. E non gli veniva in mente che in quel modo poteva mettere in pericolo, oltre a se stesso, anche tutti loro?». Sospirò di nuovo e scivolò verso il ragazzo, cercando di fare meno rumore possibile, ma malgrado lo sforzo i suoi passi risuonavano fragorosi sul vetusto marmo del pavimento, centuplicati come le campane dell’eternità. «Gabriele, cosa ti succede? Perché non t’inginocchi? » disse brusco ma a bassa voce non appena l’ebbe raggiunto. E anche così non si sentì sicuro che il compagno accanto a Gabriele non l’avesse sentito, e allora aggiunse: «Il solito crampo? Beh… vieni, ti porto fuori, vediamo cosa si può fare». Erano arrivati in direzione, e ad un cenno del suo insegnante il ragazzo con gesto rapido si era lasciato cadere su una sedia. Niente crampo. «Senti, ora mi devi spiegare perché non ti sei inginocchiato come gli altri» chiese, cercando di tenere a freno l’irritazione, «mi sembrava che tu avessi capito come devi comportarti». «È che… sì, l’ho capito… io volevo, ma le ginocchia… insomma, non mi hanno obbedito». «Quanti anni hai? Tre… cinque?». Il tono di don Paolo si era fatto sferzante. «No signore, ne ho undici». «No, “signore” non va bene, sono “Padre”, padre Paolo, sono il tuo Prefetto. Almeno questo lo sai?». «Sì, lo so Padre!». «E allora perché ti comporti come un bambino piccolo? “Le ginocchia non mi obbediscono”?» frignò il Prefetto facendogli il verso, ma poi, come pentito, tornò di colpo al tono normale. «Non vedi che adesso sei tranquillamente seduto, vuol dire allora che le ginocchia ti hanno obbedito» osservò con calma. «Ha ragione» si confuse Gabriele «non so perché mi sono comportato così». E si capiva che davvero non lo sapeva. «Sei confuso?».
Il Prefetto ora parlava con una specie di stanca saggezza nella voce. «Non sei un traditore. Se sei costretto a mentire non devi sentirti in colpa. Io risponderò ai tuoi dubbi servendomi della tua stessa religione. Salvarsi la vita viene prima di qualsiasi altra cosa. Tu sceglierai la vita , lo recita proprio il Deuteronomio… te lo ricordi?». Ma Gabriele non lo ricordava, anzi, non lo sapeva affatto. Alla scuola ebraica s’imparava a recitare le preghiere e le benedizioni, e si raccontavano poi i fatti della Bibbia, tipo “Giuseppe venduto dai fratelli” e le “lenticchie di Esaù”, nient’altro. «Ti rendi conto che se ti comporti in questo modo imprudente si accorgeranno tutti che non sei cattolico, e ne trarranno le conclusioni? E in questo modo metterai in pericolo non solo te, ma anche gli altri, i tuoi compagni, e noi che ti abbiamo accolto». «Ha ragione. Mi scuso. È che non mi rendo conto di quello che faccio». Si vedeva che il ragazzo tentava con fatica di trattenere le lacrime. «Ti mancano i tuoi genitori, non è vero?». Il ragazzo annuì, poi disse d’un fiato: «Perché non posso vederli almeno qualche volta?». «Gli parli al telefono una volta alla settimana, e anche così è rischioso» mormorò come fra sé il Prefetto, «mi tocca ogni volta inventarmi una scusa per farti chiamare in direzione». «Ma potrebbero venire qui. Molti altri genitori lo fanno ». Don Paolo questa volta non rispose. Avevano preso questa decisione, rimuginò fra sé, forse avevano sbagliato. Ma i genitori di Gabriele sembravano anche loro convinti. Era meglio non complicare le cose. Agli istruttori e agli altri ragazzi avevano raccontato che la famiglia viveva in Sicilia e che Gabriele, in collegio a Roma per i suoi studi, era rimasto isolato, lontano da loro. Sì, la guerra aveva tagliato l’Italia in due: il Sud liberato dall’esercito alleato e dal centro in su si era ancora sotto la morsa dei tedeschi. Meglio che nessuno potesse fare verifiche su documenti e altro… I genitori lontani… niente spiegazioni su chi erano… cosa facessero… così era più sicuro. Era stata una scelta crudele? Forse, ma non era stato solo per proteggere il ragazzo.
Anche per i genitori, nascosti da qualche parte, era meglio non spostarsi troppo. Una telefonata alla settimana era già molto. Ma insomma, don Paolo si riscosse. Avevano fatto tutti quello che potevano. E anche il ragazzo doveva fare la sua parte. «Conto su di te» gli disse seccamente «fai che le tue ginocchia ti obbediscano, e cerca d’imparare anche le preghiere… non è poi così difficile...». Nel convento nessuno sapeva la verità su Gabriele, solo don Paolo e il Rettore. E don Paolo sospirò dentro di sé un’altra volta. Ancora problemi in vista. Lo sapeva bene che quel ragazzino ebreo non aveva fatto neanche la fatica di imparare qualche parola delle preghiere cristiane. E qui non si trattava di “ginocchia” che si bloccavano. Che lui muovesse solo le labbra, ecco, adesso se ne era accorto il giovane assistente e probabilmente anche altri ragazzi. Sì, quella della “religione diversa in Sicilia” poteva andar bene per certi sempliciotti che venivano dalla campagna e da lì non si erano mai mossi prima di sbarcare al collegio, ma i ragazzi non erano mica tutti così. E ce n’erano, eccome, di quelli svelti e maliziosi, sempre pronti a cogliere qualcuno in fallo, e meglio se si trattava dei preti del collegio. E così il Prefetto si sentì costretto a chiamare ancora una volta Gabriele. «Allora!» gli disse subito «per le ginocchia “che non volevano piegarsi” ho cercato di capirti. Forse non dipendeva tutto da una tua precisa volontà. Ci sono dei meccanismi psicologici...». Ma qui don Paolo s’interruppe. «È un po’ difficile da spiegare. Lo capirai quando sarai più grande. Ma intanto quel problema lo hai risolto». Ecco, il ragazzo lo stava già guardando con viso speranzoso e riconoscente, no, così si andava fuoristrada. «Ora si tratta delle preghiere» aggiunse con tono improvvisamente spazientito «e non ricominciamo a parlare di blocco. Le preghiere le devi semplicemente imparare, è solo questione di applicarsi un po’ e di buona volontà». «Ma io muovo le labbra come mi ha detto lei». «Questo andava bene per i primi giorni. Allora non c’era altro da fare. Ma io ti avevo chiaramente detto che dopo le preghiere le dovevi imparare. Il movimento delle labbra deve corrispondere a delle vere parole, anche se pronunciate silenziosamente. Lo capisci questo? Se le labbra si muovono a casaccio finiscono tutti per accorgersene ». Il Prefetto fece una pausa. «Il tuo assistente ha già qualche sospetto. Te ne sei accorto?» aggiunse rudemente. Gabriele non rispose, poi disse piano: «Che cosa devo fare?». «Che cosa devi fare benedetto ragazzo! Ti ho dato un libro. Impara a memoria queste preghiere. Il latino lo stai studiando anche a scuola e mi sembra che tu lo segua abbastanza bene, non hai brutti voti». «No, ma io con le preghiere non ci riesco. Mi sembra di avere imparato e invece poi dimentico tutto».
Il Rettore era molto più vecchio di don Paolo e parlava con voce quasi assente. Non ti guardava in faccia mentre parlava, sembrava preferisse rimirare il vuoto come se qualcuno dall’alto gli potesse suggerire le parole giuste. Però delle «ginocchia che non si volevano piegare» e delle preghiere mancate lo sapeva. «Sei molto osservante nella tua religione?» chiese a Gabriele, ma sempre con quel suo tono lontano. «N…no, solo un po’. Dell’ebraico conosco le preghiere e le benedizioni, ma perché ce le insegnano a scuola. Poi ci sono le feste… quelle sì, a casa ci piacciono, specialmente Chanukkà perché si accendono le fiammelle e si fanno i regali». «Capisco» disse don Mercanzin, e Gabriele si accorse che lo stava guardando in faccia e sorrideva. Allora gli venne da raccontargli dei nonni, loro erano davvero molto religiosi e gli avevano insegnato lo Shemà quando lui era ancora molto piccolo, e il sabato accendevano le candele dello Shabbat e a Pesach , Pasqua, facevano una cena con tutti i cugini attorno al tavolo e si leggeva da un libro… e i bambini facevano delle domande… Poi Gabriele si fermò. Chissà perché si era messo a tirar fuori tutte queste cose… Forse perché aveva visto quel sorriso. Presto però il Rettore tornò sulla terra. Spiegò al ragazzo con voce decisa quanto fosse necessario che imparasse le preghiere cattoliche. Muovere le labbra a vuoto non andava bene perché le labbra devono avere dentro delle parole vere. Su! Non era difficile! Le menti degli studenti sono sempre allenate, e si sapeva che lui in classe andava piuttosto bene. «Facciamo un patto» disse alla fine, «tu studi il Pater Noster e l’ Ave Maria a memoria, e poi e vieni a recitarli direttamente qui da me. Sarà un altro nostro incontro personale». Gabriele studiò seriamente e con coscienza quello che il Rettore gli aveva indicato, poi tornò da lui. Cominciò baldanzoso a recitare i primi versetti, poi di colpo si fermò. Lacrime silenziose avevano cominciato a rigargli il volto, poi, piangendo più forte, gridò: «Non mi ricordo più niente! Non lo faccio apposta. Non so perché mi succede». Don Mercanzin restò un po’ in silenzio con gli occhi socchiusi. Gabriele non osava muoversi. Non sapeva se il vecchio prete si fosse addormentato. Ma il “vecchio prete” alla fine parlò. «Senti ragazzo, facciamo così. Non devi più muovere le labbra “vuote”, questo è sicuro. Quando sarai in chiesa con gli altri recita una preghiera. Non fa niente se non è la nostra. Dentro di te puoi ripetere la tua preghiera, una di quelle che ti hanno insegnato i nonni. Vedrai che andrà bene». «Davvero posso farlo?». «Sì, puoi. Sono io che te lo dico». Quella stessa sera il ragazzo fece quello che il vecchio prete gli aveva suggerito. Invece di muovere le labbra a casaccio pensando a chissà cosa, tirò fuori da sé, affidandole alle labbra, le parole che i nonni gli avevano insegnato quando era ancora molto piccolo. E quelle parole gli echeggiarono dentro festanti, come se anche banchi della chiesa le stessero recitando con lui. Shemà Israel s’incontrò nell’aria con il Pater Noster che gli altri ragazzini stavano recitando in coro, e le due preghiere s’intrecciarono strettamente come due serpentelli d’acqua dolce e così intrecciati si librarono verso la luce azzurrina della chiesa, su su oltre le vetrate e ancora più su lungo il cammino delle stelle. E sembrò che Dio o Chi per Lui avesse gradito quelle speciali preghiere perché adesso era come se l’intero universo si fosse riempito tutto di quella luce azzurrina.
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