'Il ragazzo che disegnò Auschwitz. Una storia vera di speranza e sopravvivenza' Recensione di Wlodek Goldkorn
Testata: La Repubblica Data: 26 gennaio 2022 Pagina: 29 Autore: Wlodek Goldkorn Titolo: «'La mia Auschwitz a disegni'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/01/2022, a pag.29 con il titolo 'La mia Auschwitz a disegni' la recensione di Wlodek Goldkorn.
Wlodek Goldkorn
La copertina (Einaudi ed.)
Thomas Geve ha novantadue anni, vive a Herzliya, a due passi da Tel Aviv. La cosa che più colpisce, parlandogli, è l’ostinato rifiuto di considerarsi vittima, unito all’idea che i valori più importanti sono solidarietà e giustizia. Geve, all’anagrafe Stefan Cohn, è nato a Stettino, ai tempi una città tedesca. Famiglia borghese, padre e nonno medici, quando aveva poco più di tredici anni venne deportato da Berlino ad Auschwitz. Ora è in uscita in italiano il suo libro Il ragazzo che disegnò Auschwitz. Una storia vera di speranza e sopravvivenza , scritto assieme a Charles Inglefield, tradotto dall’inglese da Federica Oddera (Einaudi). È un volume poderoso, 304 pagine, con disegni a colori, che Geve aveva realizzato appena liberato dagli alleati a Buchenwald, dove era finito dopo essere transitato per il lager di Gross-Rosen. I disegni, depositati a Yad Vashem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme, sono una documentazione della vita dei prigionieri ad Auschwitz, appunto. Ma il loro valore non è solo quello della testimonianza, sono pure belli, così come è affascinante e inconsueto il testo scritto, dove soprattutto si racconta la vita e non la morte. Il colloquio con Geve avviene su Zoom, il tramite è la figlia che ogni tanto interviene, quando lui si spazientisce. Lei gli parla con tenerezza, consapevole della fragilità del padre, ma mai protettiva. Geve esordisce: «Mi chiedono se sono contento per l’uscita del mio libro. E sa come rispondo? Dico che non ci sono motivi per essere contenti del passato. Però sono felice di aver potuto ricordare i quaranta prigionieri che mi hanno aiutato a sopravvivere e che attraverso questo libro è come se fossero tornati in vita». Infatti si parla di atti di solidarietà, talvolta gratuita, altre volte meno disinteressata e che lasciamo al lettore di scoprire. Ma intanto c’è un episodio terribile. Il protagonista dice a un guardiano che vorrebbe andare nel “campo dei bambini”. Non sapeva che i bambini finivano dritti nelle camere a gas. Il tedesco gli risponde di non rivolgere più quella domanda a nessuno. Geve reagisce: «Mi chiede se sono sopravvissuto grazie a casi fortuiti? La fortuna si ha quando hai comprato il biglietto vincente alla lotteria. Io invece sarei dovuto sopravvivere per non più di sei mesi, perché sei mesi dopo il mio arrivo ad Auschwitz (nel giugno 1943) l’inverno polacco si sarebbe fatto durissimo, con tutte le conseguenze: le malattie, aggravate dalla fame. Ma negli ultimi anni ho letto testi degli scienziati riguardanti il sistema immunitario. Ecco, io sono una persona con sistema immunitario fortissimo. Raramente mi capita di ammalarmi perfino quando fa molto freddo. È stato il mio sistema immunitario ad avermi salvato la vita». Non ha perso il senso dell’ironia Geve. Ma poi alla domanda sulla ragione per cui ha fatto oltre ottanta disegni, precisi nei dettagli, risponde: «Per mio padre che viveva in Inghilterra ». Il padre nell’estate 1939 riuscì ad avere il visto per la Gran Bretagna. Il nostro interlocutore e la madre avrebbero dovuto raggiungerlo in autunno. Ma scoppiò la guerra. La madre di Geve, deportata assieme a lui, da Auschwitz non è più tornata. Dice il nostro interlocutore: «I bambini di solito disegnano alberi, fiori. Io ho disegnato quello che avevo visto nei campi». Nel 1950 Geve, da Londra, è andato a vivere in Israele. Spiega: «Avevo un amico in Svizzera». In Svizzera è arrivato dopo la liberazione dai lager, assieme ad altri ragazzi, per un periodo di convalescenza e riabilitazione. «Quell’amico», continua, «è andato in Israele quando lo Stato degli ebrei è stato fondato. Mi scriveva lettere: “vieni qui. Abbiamo bisogno di te”. Io non avevo grandi rapporti con Israele, non sapevo l’ebraico, non avevo parenti da queste parti, non ero un ebreo osservante né ero interessato a questioni ebraiche. Ma ho capito che queste erano le mie origini e quindi che avrei dovuto vivere qui. È stata una decisione difficile. Mio padre non voleva darmi il permesso di andarmene, ma ci sono arrivato». La figlia racconta che Geve era andato a una mostra di aeronautica. Seduto nella cabina del pilota di un aereo, meditava su cosa fare con la sua vita, se andare in Israele. All’improvviso vide quella che oggi è la regina in visita alla mostra. Elisabetta gli aveva fatto un cenno di saluto con la mano. Lui lo interpretò come un segno del destino. Ecco, ad Auschwitz, Geve era stato assegnato alla “scuola dei muratori”, ragazzi destinati a costruire la Germania di Hitler da schiavi. E invece andò a costruire il Paese degli ebrei da uomo libero e istruito. Torniamo a parlare del libro. È scritto dal punto di vista di un ragazzo e per questo è così autentico. E c’è molta vita, perfino desiderio sessuale. «Qualcuno (si riferisce all’edizione originale) mi ha mandato un messaggio per dire che si canta troppo in questo libro e non ci sono cadaveri in strada. Ma io non volevo raccontare come si moriva né come si veniva uccisi. Io ho voluto raccontare la vita, la speranza, perfino la fiducia». All’annotazione che nel suo libro non c’è giudizio, risponde: «Ero troppo giovane per poter giudicare». La figlia aggiunge: «Eravate ragazzi, nella scuola dei muratori, forse per questo da voi l’atmosfera era un po’ diversa ». Lui reagisce: «Ma c’è anche il fatto che ero giovanissimo, fra i più giovani del lager, e forse per questo molti mi volevano proteggere». Il colloquio si avvia verso la conclusione. La domanda è perché la memoria della Shoah è importante. Geve si arrabbia: «Non so». Poi alza la voce: «Perché dobbiamo sapere che l’Europa era un posto orrendo. E che tanti erano i complici dei nazisti: i collaborazionisti di Vichy, i fascisti. E anche i morti erano tantissimi. Non solo gli ebrei». Riflette: «Nel 1933 Hitler cominciò con uccidere i comunisti. Poi fu il turno dei malati di mente, degli omosessuali, poi i prigionieri di guerra sovietici, i rom e fino ad arrivare a costruire le fabbriche della morte come Auschwitz, dove la maggior parte dei deportati, ebrei, dai treni andava direttamente nelle camere a gas». Precisa: «Non mi considero un attivista della memoria. Scrivo libri e voglio che la gente conosca il passato, desidero che quei crimini non si ripetano più».
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