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La Stampa Rassegna Stampa
24.01.2022 Siria: lo Stato islamico non è morto
Commento di Francesca Mannocchi

Testata: La Stampa
Data: 24 gennaio 2022
Pagina: 20
Autore: Francesca Mannocchi
Titolo: «Siria, l'assalto dell'Isis»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/01/2022, a pag.20, con il titolo "Siria, l'assalto dell'Isis", il commento di Francesca Mannocchi.

Isis spazzato via dalla Siria ma non è la fine della sua ideologia - Il  Sole 24 ORE

Esistono due luoghi d'elezione delle radicalizzazioni: le prigioni e i campi profughi. Luoghi in cui il tempo esterno si ferma e quello interno si cristallizza. Lì il fondamentalismo ha vita facile perché, mentre tutto intorno scorre, il messaggio radicale, violento, oscurantista, si propaga. Gli eventi degli ultimi giorni, nel Nordest della Siria ne sono l'ennesima conferma. Da tre giorni la città di Hasaka è attraversata da intensi combattimenti dopo l'attacco dei miliziani dello Stato Islamico alla prigione di Gweiran gestita dalle forze curde, al cui interno ci sarebbero 3.500 detenuti sospettati di avere legami col gruppo. Secondo l'Osservatorio siriano peri diritti umani sarebbero centinaia gli jihadisti in fuga e 120 le vittime, «almeno 70 tra i miliziani dell'Isis e circa 40 membri delle forze curde», tra guardie carcerarie e squadre antiterrorismo che stanno ancora combattendo nei quartieri limitrofi al sito carcerario. Gli attacchi alle prigioni sono considerati dagli analisti e studiosi di antiterrorismo un rischio per la sicurezza a breve e lungo termine e una strategia ormai classica dei gruppi jihadisti.

Nelle celle e nei campi
Con la fine della guerra, e la conseguente, schiacciante, vittoria almeno sul piano militare dello Stato Islamico in Siria e in Iraq, migliaia di combattenti sono finiti in prigioni fatiscenti e le loro famiglie, mogli e figli, confinati in campi profughi sovraffollati e invivibili, come quello di Al Hol (amministrato dall'SDF) dove vivono circa 60 mila persone. Il 90% sono donne e bambini. Tra loro 9 mila cittadini stranieri, parenti di foreign fighter partiti per unirsi al progetto del Califfato e a cui non è stato concesso fare ritorno nei Paesi d'origine. Dopo la caduta dell'ultimo bastione dell'autoproclamato Califfato, Baghuz, la pressione sulla comunità internazionale per risolvere il problema delle decine di migliaia di persone detenute nel Nord Est della Siria è stata tanto grave quanto inascoltata. Soprattutto perché, nonostante la sconfitta militare, l'Isis non ha mai lesinato in incoraggiamenti agli assalti delle carceri. Già nel 2019, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rilevava che membri dello Stato Islamico stessero «pianificando l'evasione dei combattenti dalle strutture detentive e rilevavano la precarietà delle autorità locali e dei gruppi armati non statali nella gestione di sfollati e detenuti». Un modo elegante per dire che finita la guerra contro il demone dell'Isis, eliminate le sacche di resistenza a Baghuz con gli ultimi bombardamenti, l'Occidente si era lavato le mani dei combattenti locali e anche dei foreign fighter, delegando la gestione delle carceri a un attore non statale - l'autorità curda - delegando anche il confinamento nei campi profughi di moglie figli e costruendo dunque il terreno più fertile per i reclutamenti del futuro. Un disastro annunciato.

Siria,

Gli effetti propagandistici
Riavvolgendo il nastro al 2012-2013 è facile trovare le tracce di una lezione non imparata sugli effetti e il valore propagandistico degli assalti alle prigioni nell'ideologia jihadista. Nel 2012, Al Qaeda in Iraq, lanciò la campagna "Breaking the Walls", liberando centinaia di combattenti nelle prigioni irachene e provocando otto evasioni che hanno favorito la fuga di quelli che sarebbero diventati leader dell'Isis di alto livello. Campagna conclusa i121 luglio 2013 quando il gruppo ha fatto irruzione nella prigione di Abu Ghraib, portando alla fuga di 500 o più prigionieri, la maggior parte dei quali erano stati detenuti durante la guerra in Iraq per attività terroristiche. Terminati gli assalti, Al Qaeda in Iraq lanciò la fase due della campagna "The Soldiers' Harvest", (il raccolto dei soldati) : ha ricompattato i ranghi unendo i nuovi sostenitori ai membri operativi che erano detenuti, ponendo le basi per la sua rinascita e la transizione verso quello che sarebbe diventato di lì a poco Isis, lo Stato Islamico dell'Iraq e della Siria.

La strategia jihadista
Osservando gli eventi a anni (e guerre) di distanza, è immediato notare che le strategie di evasione sono parte integrante del tessuto organizzativo del gruppo: assaltare un carcere significa rivendicare la propria forza militare, liberare i vertici del movimento specialisti in tecniche di combattimento e determinare una vittoria propagandistica coni nemici esterni e anche con le correnti interne. Da ultimo, le rivolte nelle carceri sottolineano la debolezza dell'apparato statale (in questo caso non-statale) in cui i movimenti agiscono. Tappa coerente alle strategie jihadiste dai tempi di Zarqawi: creare disordine, indebolire o distruggere gli apparati dei territori in cui si opera per mostrarne la fragilità, consolidare il proprio dominio mentre intorno lo Stato collassa, lasciare espandere il potere dei miliziani e proclamare il Califfato. Secondo i dati raccolti dalla società privata Jihad Analytics l'Isis ha effettuato 22 attacchi alle carceri in Iraq, Afghanistan, Filippine, Repubblica Democratica del Congo, Libia, Niger, Arabia Saudita e Tagikistan dal 2013 a oggi.

II destino dei bambini
Per anni, dalla caduta di Mosul, Sirte e Raqqa - le tre capitali del Califfato - e Baghuz poi, i governi occidentali che avevano gridato alla missione compiuta, non si sono posti, o meglio hanno rifiutato di affrontare, il problema di chi era rimasto in Siria, e in Iraq. Miliziani detenuti, semplici sospettati di affiliazione e famiglie. Numeri giganteschi, il capitale umano del gruppo jihadista, che ha di fatto lasciato, tra il 2014 e il 2018, il testimone del progetto del futuro Califfato alle donne e ai giovani, o meglio a quelli che quattro anni fa, quando è finita la guerra, erano bambini, e sono diventati adolescenti dietro le sbarre di una cella, in una prigione del Rojava, con la sola colpa di essere figli o parenti di miliziani dell'Isis. Ci sono anche loro tra gli evasi di Hasaka. Settecento ragazzini su cui da anni, le organizzazioni umanitarie, lanciano appelli che cadono nel vuoto. A marzo dello scorso anno, Human Rights Watch pubblicò un lungo dettagliatissimo report sui rischi delle detenzioni nella Siria Nord orientale, il report descriveva le condizioni di vita detenuti stranieri mai portati di fronte a un tribunale e quindi oggetto di detenzioni arbitrarie oltre che indefinite, sottoposti a crescenti livelli di violenza e al parallelo calo degli aiuti umanitari: cibo e medicine. Le parole di Letta Tyler, direttore del settore Crisi e Conflitti di Human Rights Watch, sul rifiuto dei governi di rimpatriare i foreign fighter, in più, erano state chiarissime: «I governi dovrebbero aiutare a perseguire equamente i detenuti sospettati di crimini gravi e liberare tutti gli altri, non contribuendo a creare un'altra Guantanamo».

Guantanamo, il simbolo
Tyler evocava una delle parole chiave della propaganda jihadista degli ultimi vent'anni: Guantanamo. Le altre sono Camp Bucca e Abu Ghraib. Tutte carceri teatro di abusi che hanno alimentato generazioni di terroristi. E non è un caso che sia proprio nella prigione di Camp Bucca che l'autoproclamato Califfo Abu Bakr al Baghdadi aveva trascorso anni in detenzione. Come non è un caso se parte del governo talebano è costituito da ex detenuti di Guantanamo, prigionieri che hanno oggi l'aura simbolica di essere sopravvissuti alla vergogna delle torture occidentali.

Il deserto di AI-Hol
Lo scorso giugno Fabrizio Carboni, direttore generale della Croce Rossa Internazionale per il Medio Oriente, ha visitato il Nord-Est della Siria, sia le prigioni che i campi profughi. Di ritorno dal suo viaggio aveva lanciato un allarme sulle condizioni di Al-Hol, undeserto di tende che si espande a perdita d'occhio, dove continuano a morire bambini, e le madri vengono separate dai figli quando raggiungono l'adolescenza: «Centinaia di bambini e ragazzi sono detenuti nelle carceri per adulti, bambini siriani, iracheni e di dozzine di altri Paesi. È il momento per gli Stati di agire in modo umano e responsabile». Molti dei ragazzi di cui parla Carboni sono stati prelevati dai campi profughi quando hanno raggiunto i dodici anni, separati forzatamente dalle madri, cento di loro vivono in un centro di riabilitazione chiuso a chiave. «I bisogni sono immensi - ha detto il direttore di Icrc - e il costo dell'inazione è alto». Il costo dell'inazione è aumentare il diffondersi del radicalismo, quando si era certi di aver estirpato il male, caduti i suoi bastioni. Una volta ancora, il grido d'allarme è rimasto inascoltato.

L'Isis è morto, viva l'Isis
Nel suo ultimo messaggio come leader dello Stato Islamico, nel settembre del 2019, Abu Bakr al-Baghdadi disse ai suoi seguaci di «fare del proprio meglio per salvare i fratelli e le sorelle dai muri che li imprigionano». Baghdadi veniva da lì, dalla detenzione a Camp Bucca. In cella aveva consolidato il suo carisma sul gruppo e espanso il suo dominio. Oggi, tre giorni dopo l'assalto alla prigione di Hasaka, è chiaro che non siano evasi solo i prigionieri ma anche la portata simbolica che portano con loro, hanno resistito tra le mura di un carcere, sono stati salvati dai combattenti, e sono pronti a combattere ancora, contro gli infedeli che credevano di aver sconfitto il progetto del Califfato. Pronti, coi loro corpi liberati, a mostrare che l'Isis è morto, viva l'Isis.

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