Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 24/01/2022, a pag.17, con il titolo "Nel nascondiglio inglese delle calciatrici di Herat: 'I talebani ci odiano volevano lapidarci' " il commento di Antonello Guerrera.
Antonello Guerrera
Alcune delle calciatrici afghane
«E quindi non avete mai visto il film Sognando Beckham?». «No!», ride la capitana Sabriah Nowroozi, 24 anni, «cos’è?». «Parla di una ragazza qui in Inghilterra», le spieghiamo, «gli adulti non vogliono che giochi a calcio. Ma lei non molla, abbatte i pregiudizi e alla fine corona il suo, e il vostro, sogno: giocare a calcio. Come l’ex capitano dell’Inghilterra, David Beckham». «Sìììì!», esultano tutte. Come se avessero segnato un gol. Dove siamo, non possiamo dirlo. Queste giovani e già eroiche afgane, parte di 7mila rifugiati accolti dal governo britannico dopo il golpe dei talebani lo scorso Ferragosto, hanno già ricevuto minacce e intimidazioni di una minoranza razzista nell’hotel che le ospita nell’Inghilterra settentrionale. «Ci accusano di rubare i sussidi e il lavoro agli inglesi. Ma noi vogliamo solo giocare a calcio», promette Nowroozi, che purtroppo si è rotta un legamento poco prima di fuggire dall’Afghanistan. Ma il suo sorriso non lo perde mai. La sua è una felicità rara e coraggiosa, che travalica ogni confine, come quella delle compagne di squadra: Asma, Sevin, Mahdiya, Fayza, Fatemah, Elaha, Narges Mayeli. In tutto sono 28. Hanno tra 14 e 25 anni. A parte Narges e Sabriah, delle altre non possiamo rivelare il cognome perché le famiglie sono ancora in Afghanistan. I talebani potrebbero vendicarsi. Ma qui, finalmente, le ragazze possono giocare. «Papà e i miei fratelli guardavano sempre il calcio in tv», racconta Sosal, «quando mi hanno visto con un pallone mi hanno preso per matta. Ma ho vinto io». In questa località segreta, le ragazze si allenano con lo staff del Leeds del presidente italiano Andrea Radrizzani, decisivo nella loro fuga come la star americana Kim Kardashian. Agosto 2021: i talebani conquistano l’Afghanistan. Sino ad allora, Sabriah - l’unica che parla inglese - e le sue compagne di squadra giocano a calcio senza problemi ad Herat. Qualcuna con il velo, altre senza. Il campo è molto spesso di terra «a parte in trasferta a Kabul» e i talebani già le minacciano di morte. «Ma potevamo giocare», racconta la coraggiosa capitana, «anche perché c’erano i soldati italiani. Guarda!», ci mostra un video sul cellulare, «ci venivano sempre a vedere, ci proteggevano. Anche tu sei italiano, no? Che bello!».
Altri due italiani, lo scrittore Stefano Liberti e il videomaker Mario Poeta, nel 2017 avevano raccontato la storia della squadra di queste ragazze, il Bastan, nel documentario Herat Football Club. Due mesi fa, Liberti riceve messaggi di aiuto da alcune calciatrici e si attiva immediatamente per facilitare la fuga in Italia dell’allenatore e tre ragazze: «Ci siamo coordinati con la Farnesina e la Onlus Cospe, sono stati momenti drammatici», spiega Liberti, «altre ragazze purtroppo non ce l’hanno fatta: una ha perso il passaporto nell’attentato dell’aeroporto di Kabul e si sta nascondendo in Afghanistan per sfuggire ai talebani. Un’altra si è rifugiata in Iran. Dobbiamo salvare anche loro: oggi verrà lanciata una nuova campagna del Cospe». Nello scorso e infernale agosto, anche Sabriah e le sue co mpagne cercano di fuggire. Sebbene, racconta la capitana a testa bassa, «l’allenatore non ci abbia più risposto al telefono in quei due giorni. Ci sono rimasta male». Le ragazze rischiano tantissimo: razzi esplodono intorno al loro pullman sulla strada per Kabul. Anche loro scampano all’attentato Isis del 26 agosto all’aeroporto della capitale: «È stato solo un caso, eravamo in ritardo per la calca. Potevamo morire tutte». Racconta Radrizzani: «A inizio settembre veniamo a sapere del dramma di queste ragazze. Grazie ai nostri contatti con il Qatar, riusciamo a dirottarle verso il Pakistan ». «Ma i talebani ci bloccano più volte», ricorda Sabriah con lo sguardo nel vuoto, «avevamo i documenti giusti, ma non volevano farci passare. Dicevano che dovevamo essere accompagnate da uomini e che avrebbero parlato solo con loro. Qualcuno voleva picchiarci, altri dicevano che meritavamo di essere lapidate ». «Poi però», continua Radrizzani, «la situazione si sblocca grazie alla mediazione della mia fondazione Play For Change», che da anni si occupa di progetti di riqualificazione sociale tramite lo sport «e di un’altra associazione, Football for Peace. Il Pakistan fa entrare le ragazze, poi dopo due giorni mi ritrovo sui giornali inglesi con Kim Kardashian». Qui entra in gioco Khalida Popal, ex capitana e allenatrice della nazionale femminile afgana, oggi in esilio in Danimarca. In quelle ore di panico, Popal contatta un rabbino ortodosso di New York, Moshe Margaretten, il quale, tramite la sua associazione umanitaria Tzedek, coinvolge Kim Kardashian. La 41enne superstar americana paga l’aereo dal Pakistan che salva le giovani calciatrici. Che così tornano a vivere, in Inghilterra. «È incredibile la forza di queste ragazze », sostiene Khalida, «ora la comunità internazionale deve mobilitarsi: il gesto più bello sarebbe che il calcio mondiale riconoscesse una nazionale femminile dell’Afghanistan in esilio».
Andiamo al campo di allenamento con loro. In taxi, finanziati da Play for Change, che insieme al Leeds, oltre al sostegno sportivo, contribuisce alle spese di albergo, ha messo su un fundraising e assiste le ragazze, per ora con un visto di 6 mesi, a stabilirsi definitivamente nel Regno Unito. Le giovani afgane escono dagli spogliatoi: scarpini nuovi, lucidi, che talvolta in Afghanistan neanche avevano. «Quando hanno visto per la prima volta i nostri campi d’erba perfetta si sono messe a piangere. Mi sono commosso anch’io», ammette Radrizzani, «spero che qualcuna di loro possa entrare nella nostra squadra femminile del Leeds, sarebbe fantastico». «Sevin ed Elaha sono davvero molto brave», assicura l’allenatore Richard, «ma tutte hanno ottime possibilità». Idoli? Soprattutto Neymar e Messi. Sabriah, invece, si è sempre «ispirata a Sergio Ramos. Ho sempre avuto il numero 4». Addio, Afghanistan? «Ovvio che ci piacerebbe tornare un giorno», sospira Sosal, «e a volte non è facile giocare pensando alle nostre famiglie ancora in pericolo. Ma credo che rimarremo qui in Inghilterra a lungo. I talebani non cambieranno. Ci lapiderebbero. Solo perché amiamo il calcio». «Finalmente siamo libere», è il sollievo di Sabriah, che ha appena dipinto un quadro straordinario con una bambina che, con le sue mani, illumina le tenebre. «Quello che i talebani non capiscono è che per noi il calcio non è solo divertimento. Ma amore». Piccole grandi donne crescono, in fuga per la vittoria. Sognando Beckham.
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