Riprendiamo dall' ESPRESSO di oggi 23/01/2022, a pag.62, con il titolo "Come si diventa carnefici", l'analisi di Wlodek Goldkorn.
Wlodek Goldkorn
La copertina (Einaudi ed.)
A metà luglio 1942, un battaglione di riserva della polizia tedesca: uomini di mezz'età, fra i trentatré e quarantotto anni, in stragrande maggioranza operai, gente normalissima, cuore pulsante della società industriale, reclutati ad Amburgo, città portuale di scarse simpatie naziste, insomma a metà luglio 1942, in Polonia, a Jozefòw un paesone di poche migliaia di abitanti, sbarca il Battaglione 101 (questa era il nome) e compie una strage degli ebrei. Questo episodio, marginale nella spaventosa economia della Shoah, è stato posto, una trentina di anni fa, al centro di un libro che in larga parte ha cambiato la storiografia dell'Olocausto e la nostra percezione della catastrofe europea. Il testo, scritto da Christopher Browning, intitolato "Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia", tradotto dall'inglese da Laura Salvai, esce ora di nuovo con Einaudi, in un'edizione ampliata. Occasione questa per parlare con l'autore, non solo del libro, quanto della questione, cruciale per chi studia la Shoah non come fatto isolato ma per capire la contemporaneità. La questione è: come uomini (sono tutti uomini non ci sono donne in quel battaglione), normalissimi diventino carnefici, privi di elementare empatia. Sullo schermo del computer appare la faccia del settantottenne professore, sullo sfondo di un'ampia finestra e dietro il cielo azzurro, sereno. «Da quando sono in pensione vivo a Tacoma, nello Stato di Washington. In un'ora posso essere a Seattle e intanto mi godo la montagna e l'Oceano». E poi comincia: «Lasciamo da parte, per un attimo, l'Olocausto. Parliamo di Ruanda, Bosnia, Cambogia. Quando un governo vuole assassinare masse di persone, il problema non è come trovare chi mette in atto il massacro, ma come impedire a quei governi di farlo. Gli uomini comuni possono compiere ogni delitto quando sono convinti di eseguire compiti conferiti da autorità legittime». Riflette: «Né io né lei abbiamo mai dovuto affrontare situazioni simili. Quindi né io né lei sappiamo come ci saremmo comportati. Il meglio che possiamo fare è cercare di comprendere perché cose simili siano successe». All'obiezione che già Hannah Arendt ha ampiamente spiegato quanto l'ubbidienza possa essere crimine, e che questa constatazione non è più sufficiente, anche perché lei da filosofa aveva giuste intuizioni ma non conosceva i fatti più tardi scoperti dagli storici, per esempio che Eichmann non era un anonimo burocrate ma un nazista di primissimo rango, Browning risponde: «Ci vogliono sia persone con forti motivazioni ideologiche, che uomini comuni per mettere in atto il genocidio. Un Eichmann o un Himmler non potevano uccidere da soli tutti gli ebrei. Occorrevano uomini comuni che lo facessero. Nel mio libro ho cercato di mettere a fuoco una vicenda di uomini così e che non era stata sufficientemente indagata». La domanda è: perché non era indagata? Risposta: «A causa della convinzione che fossero uomini comuni e quindi non valesse la pena occuparsene».
E cosa ha imparato? Browning solleva le mani: «Tempo fa, eravamo convinti che per fare certe cose occorressero uomini selezionati con attenzione, sottoposti a un forte indottrinamento e motivati ideologicamente. Eppure, gli uomini del Battaglione 101, fra i più efficienti nell'eseguire le uccisioni di massa nei territori della Polonia occupata, erano persone senza una preparazione specifica, senza indottrinamento, né selezionati all'uopo. All'inizio qualcuno aveva difficoltà a uccidere, ma hanno recuperato velocemente e sono diventati assassini abituali». E allora, torniamo sulla scena di Jòzefow che Browning ha ricostruito dagli atti giudiziari tedeschi degli anni Sessanta. Il comandante, maggiore Wilhelm Trapp, raduna i suoi uomini. Spiega il compito (fucilare gli ebrei) e dice: «Chi non se la sente, faccia un passo in avanti». Quel passo lo fa un solo uomo, poi lo segue una dozzina di commilitoni. Nessuno viene punito, nessuno costretto a sparare. Ma allora gli altri diventano assassini, per lo spirito di corpo? Per complicità maschile? Opportunismo? Il professore interrompe, ha fretta di rispondere: «È ovvio che la paura di subire una punizione non è sufficiente per spiegare come si diventa un boia. Molto più interessante è il concetto di "Kameradschaft" (cameratismo) e di "Volksgemeinschaft" (la comunità del popolo nell'accezione nazista). Ne ha parlato un mio collega, Thomas Kuhne (NdR: nel libro, in italiano, "Il male dentro. La comunità di Hitler: psicologia del genocidio e orgoglio nazionale". Edizioni dell'Altana). Si, c'entra senso di appartenenza, una certa idea della mascolinità: essere duri, implacabili». Si ferma, poi guarda dritto lo schermo, si solleva leggermente dalla sedia: «I circa cinquecento uomini, del battaglione 101, in una Polonia occupata, in territorio ostile, avevano un solo punto di riferimento: la loro unità. Niente famiglie, niente amici. Niente i soliti riferimenti della loro città Amburgo. Come gruppo in Polonia hanno fatto cose che non avrebbero mai fatto come individui ad Amburgo». Riflette: «Penso agli americani in Vietnam. In mezzo a un Paese straniero, dove non ti puoi fidare di nessuno, sei condannato a stare solo fra i tuoi commilitoni, maschi. Vuoi essere stimato, far parte del gruppo, perché è l'unico che hai. Il conformismo è molto forte in queste situazioni».
Obiezione obbligatoria: la guerra del Vietnam non è paragonabile alla Shoah. Obiezione accolta in quanto ovvia, ma con una annotazione: «Stiamo parlando di situazioni concrete e di uomini comuni, non della filosofia della Storia. Cerchiamo di capire come si diventa assassini, non (per ora) come si compie il genocidio. E allora, la tattica di contro-guerriglia comportava, anche in Vietnam uccisioni fra popolazione civile. Nessuno ha ordinato il massacro di My Lai (NdR: una strage nel marzo 1968 di oltre cinquecento civili) ma era prevedibile che un episodio simile sarebbe prima o poi successo». Proponiamo di allargare il discorso. La Shoah è l'espressione di un nichilismo radicale, di rovesciamento di tutti i valori. Browning interrompe di nuovo, per dire: «Ciò che era giusto è diventato sbagliato. Il torto dritto. Non uccidere il nemico è diventato peccato. L'etica era ristretta al tuo gruppo di appartenenza, la vita di chi era fuori da quel collettivo valeva zero. E questo ci porta all'Olocausto». E quindi siamo nel cuore della Shoah. E delle immagini. Non molti lo sanno, ma circa il 90 per cento delle foto che abbiamo sono state scattate dai nazisti. Dimostrano masse dove è difficile distinguere le singole persone, le facce. Oppure ci sono fotografie di donne, spesso nude, poco prima di essere uccise. Insomma, noi vediamo le vittime e la storia con gli occhi dei nazisti. Browning resta in silenzio. Sospira: «Da storico devo usare le prove. E le foto sono prove, per quanto la situazione possa essere dolorosa». Di nuovo silenzio. Un sorriso: «Nella nuova edizione di "Uomini comuni" c'è un intero capitolo fatto di immagini ma ogni immagine è spiegata. La prima edizione aveva didascalie, ma spesso senza la contestualizzazione». Ancora una lunga pausa e poi: «Ho capito che le foto vanno raccontate, non solo citate. Devi dire chi le ha fatte, qual è il loro significato. Non sono e non devono essere illustrazioni. È quello che ho imparato negli ultimi trent'anni. Sa, anche noi storici continuiamo a imparare, sempre». Ma le interpretazioni possono variare, obiettiamo. Nel libro c'è la foto di una donna, ebrea, in sottoveste con tre ufficiali nazisti intorno. Il professore la commenta come una situazione di violenza: una donna svestita con tre maschi brutali intorno. Noi vediamo però anche un altro aspetto: la donna guarda dritto negli occhi un ufficiale. Verosimilmente gli dice delle cose. I nazisti restano sorpresi per tanto coraggio. La foto dunque racconta l'eroismo di una donna comune di fronte a tre uomini spregevoli. «Ho avuto poche foto, le ho usate come ho ritenuto giusto», dice Browning. Certo, ma perché, in genere, anche là dove ci sono immagini di coraggio (alcune foto dei rivoltosi nel ghetto di Varsavia, seppur fatte dai nazisti: per esempio una dove tre insorti catturati, due donne e un uomo, guardano diritto nell'obbiettivo mentre l'uomo chiude la mano in un pugno) noi prediligiamo invece vedere le foto delle vittime inermi come quella iconica del bambino, con le mani alzate? Il professore tace di nuovo. Poi: «Gli ebrei non avevano le macchine fotografiche. Le avevano invece i nazisti e producevano le immagini. Però...». Però? «Lo stesso principio vale per i documenti scritti. La maggior parte delle fonti sono fonti tedesche. I diari degli ebrei o verbali delle sedute degli Judenrat (i consigli ebraici nei ghetti) sono rari. Sono andati distrutti o dispersi». Poi ride di cuore: «L'unico ambito dove quella situazione è rovesciata, sono le testimonianze del dopo la guerra. I nazisti non amavano raccontare. I sopravvissuti invece hanno scritto e parlato, specie a partire dai primi anni Novanta». All'annotazione che in Italia molti reduci hanno parlato solo dopo la morte di Primo Levi, un po' come se fossero intimiditi prima dalla potenza delle sue parole e dei suoi giudizi, Browning risponde: «Cosa puoi dire che non abbia già detto Levi?». Poi si corregge: «È una questione generazionale. La gente voleva ricostruire la vita, lavorare, avere famiglia. Una volta pensionati, arrivati a una certa età, potevano mettere insieme tutte le parti della loro vita. E così, oggi, abbiamo tantissime testimonianze, specie in video».
Non lo dice ma si riferisce alle testimonianze registrate in tutto il mondo dalla Fondazione Spielberg. Ci avviamo verso la conclusione. Abbiamo cominciato con la domanda su come si diventa boia. Abbiamo parlato delle situazioni concrete. Ma l'antisemitismo e l'ideologia quanto erano importanti? Risposta: «Per Hitler l'ideologia era la chiave. Per lui i destini del mondo dipendevano dalla lotta fra le razze e dallo spazio vitale (Lebensraum). Più Lebensraum, più cibo e benessere. In quel quadro gli ebrei erano considerati la minaccia universale e principale. Non potevi vincere la guerra fra le razze senza annientarli. Hitler pensava a se stesso come a una specie di salvatore messianico che sapeva quale era la fine della storia. Molti tedeschi ci hanno creduto. Ma resta la questione su come trasformi l'ideologia di una minoranza, in una convinzione condivisa dalla maggioranza della popolazione di un grande Paese. È una questione molto difficile». Ci provi, professore, provi a riassumere in una frase come si trasforma un'ideologia folle nella sua apparente logica, in un consenso di massa. La risposta arriva qualche ora via mail: «Ci vogliono i seguenti ingredienti: nazionalismo, razzismo, cameratismo, l'abilità di accarezzare un senso di risentimento, vittimismo e lo spettro di minaccia esterna che giustifichi qualunque mezzo adottato come legittima autodifesa».
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