'Il populismo russo', di Franco Venturi
Recensione di Diego Gabutti
Franco Venturi, Il populismo russo, 3 voll., ciascuno 25,00 euro, Mimesis, giugno-novembre 2021 (nell'immagine il volume 1).
Quando in Russia, sotto gli zar, nasce il terrorismo populista non è facile capire che questa speciale creatura – la sola forza d’opposizione possibile in regime autocratico – è destinata a durare ben oltre la congiuntura che l’ha generata e che all’interno della rivolta armata sta sorgendo un nuovo tipo umano: il rivoluzionario di professione, l’assassino machiavellico per il quale un solo mezzo (la violenza) è buono e l’arbitrio dei komitety coincide con la sovranità popolare. Se ne accorge, è vero, Dostoevskij nei Demoni, ma persino lui è sotto incantesimo. In un’occasione segnalata da Jurij Trifonov nel suo L’impazienza, Mursia 1978, a Dostoevskij capita di sorprendere per strada un dialogo tra alcuni terroristi che in pieno giorno, ad alta voce, preparano un attentato. Però qui succede un fatto curioso: lo scrittore non chiama al soccorso i gendarmi, ma s’allontana zitto zitto e pensieroso, stregato da questa «storia di fate» (come la chiamerà Marx, all’epoca già molto popolare in Russia): l’autocrazia da una parte, il partito armato dall’altra. Anche Fëdor Dostoevskij, tra parentesi, è stato socialista e cospiratore (e deportato) in gioventù. C’è qualcosa di nuovo nell’aria e questa cosa è il nichilismo, una parola che farà strada in fretta (come di lì a poco anche un’altra parola fatale: «superuomo», pronunciate entrambe dallo stesso filosofo, Friedrich Nietzsche).
Sono proprio questi giovani terroristi russi, con il loro esempio, a infettare di nichilismo e superomismo la filosofia occidentale e a proiettarci tutti in una modernità al di là del bene e del male, nell’era della «tecnica» e del socialismo catastrofico, cioè nel mondo che presto avrà per bandiera il criminale surrealista Fantômas, poi i gangster hollywoodiani, le SS, le BR, al Qaeda. Tutto comincia da gente piccina, che non conta nulla, come per esempio i «trogloditi». Così «fu battezzato un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari della capitale che si distingueva per il fatto che nessun estraneo sapeva dove abitassero e sotto quale nome vivessero. Perciò si disse che avevano trovato rifugio in segrete caverne», scrive Franco Venturi in un capolavoro della storiografia moderna, Il populismo russo. Uscita in prima edizione da Einaudi nel 1952, oggi finalmente (e meritoriamente) ristampata da Mimesis, la grande opera di Venturi, tradotta in molte lingue, è stata e rimane una lettura indispensabile per capire il perché e il percome del Novecento. Prima «i trogloditi», racconta Venturi, poi la valanga. Vera Zasulich, giovanissima studentessa di San Pietroburgo, spara nel 1878 al generale Trepov, governatore della città.
A dimostrazione che l’intera società civile, come diremmo oggi, è dalla parte del terrore o, come si diceva allora, della «democrazia», Zasulich è processata e assolta da una giuria popolare (la ritroveremo vent’anni dopo a Ginevra, insieme a Lenin, nella redazione dell’Iskra, un giornale clandestino). Tempo pochi mesi e nasce Narodnaja Volia, o volontà del popolo, che raccoglie l’eredità della Zasulich, dei «trogloditi», di Dostoevskij giovane cospiratore. Narodnaja Volja è un’organizzazione di combattimento che ha un unico obiettivo: uccidere lo zar. Ci riuscirà nel 1881. Un fratello di Lenin, membro dell’organizzazione, è impiccato dopo l’attentato. Ogni partito rivoluzionario russo, d’ora in avanti, avrà una sua organizzazione di combattimento, modellata sull’esempio di Narodnaja Volja, da opporre all’analoga organizzazione zarista, l’Okrana, la polizia politica, che infiltrerà i gruppi rivoluzionari e ne sarà infiltrata, che imiterà i sistemi dei rivoluzionari e ne sarà imitata, in una vertigine da spy story di doppi e tripli giochi. Mentre ci si scontra tra slavofili e occidentalisti, tra chi intende sviluppare le forme tradizionali della società russa e chi vuole spazzarle via per sostituirle con istituzioni ricalcate sui modelli occidentali, il «sottosuolo» terroristico guarda altrove, dove nessuno ha mai guardato prima. Sono altre e più radicali le sue riflessioni. Immagina che la clandestinità possa essere una forma e forse la forma ultima e definitiva della politica. In Russia si può incidere sulle istituzioni e dare voce alle legittime aspirazioni del popolo soltanto ricorrendo alla violenza? Facciamo di necessità virtù, pensa con fatale astuzia il sottosuolo. Che il terrore diventi un nuovo modello di civiltà e così sia.
Questa la storia che Venturi racconta. Poi c’è la sua. Antifascista e capo partigiano, figlio del grande critico e storico dell’arte Lionello Venturi, cospiratore antifascista con Giustizia e Libertà, leader del partito d’azione, Franco Venturi sapeva che il passato non passa mai e che ogni racconto storico riuscito è una parafrasi più o meno efficace del presente. Tra le due storie – quella raccontata e quella vissuta, la vita dei suoi contemporanei e quella delle personalità storiche di cui lo storico illustra le imprese – la distanza è minima. Nelle vite piene e ben spese, trascorse studiando le buone battaglie passate e battendosi per le buone cause del proprio tempo, non c’è differenza tra il dire e il fare. Franco Venturi, nella «fiaba» dei populisti russi, riconobbe (non a torto) qualcosa dell’esperienza politica della sua generazione d’antifascisti in esilio, alla macchia, al confino e sulla forca: la guerra contro il tiranno, di cui si voleva (e si ebbe) la testa. Per qualche anno, nel dopoguerra, fu addetto culturale all’ambasciata di Mosca, dove si votò allo studio della grande avventura del terrore. Fu un unicum nella sua carriera. In seguito, professore a Torino e autore di libri solo di poco meno eccezionali, la sua attività di storico delle grandi svolte e delle idee rivoluzionarie fu interamente dedicata allo studio del Settecento illuminista e riformatore. Storico dei Lumi, sapeva che c’è una sola rivoluzione: la riforma, rischiarata dalla ragione. Eppure l’obiettivo politico di Venturi e degli altri azionisti, nei giorni della guerra a Mussolini, non erano le riforme, ma il repulisti, il «reset», lo sbaraccamento dell’esistente. Di qui l’ambiguità di quella parte del «liberalismo» italiano che da Piero Gobetti in avanti fu intransigente e massimalista, giacobina e statalista, innamorata (non corrisposta) del comunismo e della Rivoluzione d’ottobre. Fu un liberalismo complice dell’idea che la giustizia sociale –come ai tempi di Narodnaja Volja, di Vera Zasulich e dei «trogloditi» – conta più della libertà economica e politica. Se il racconto storico, come tutti ci auguriamo, è anche un racconto morale, una guida a superare indenni trappole, imboscate e campi minati, allora è di noi che parlano tutte le favole, ed è della nostra epoca che parlano tutte le historiae. È vero, in particolare, per gli storici della generazione di Franco Venturi – per gli storici che hanno studiato le lezioni del passato nel secolo dei totalitarismi, delle tempeste d’acciaio, dei genocidi e dell’engagement totale. Di qualunque periodo si siano occupati – del Medio Evo o dell’Ottocento, dell’Antichità, del Risorgimento, d’Illuminismo o Populismo – gli storici del «secolo breve», e Venturi con loro, sono tutti novecentisti fino al collo e senza scampo.
Diego Gabutti