IC7 - Il commento di Daniele Scalise
Dal 3 all'8 gennaio 2022
Golda e Helen: il diritto dell'arte
Golda Meir
Nel frullatore delle contemporanee insensatezze che i media – social o meno che siano – amplificano e incoraggiano, si vanno via via aggiungendo ingredienti che rendono la bevanda ancora più indigesta. La voga dominante, con tratti spesso paradossali, del politically correct, contagia idee e ideologie opposte ma unite dalla ipersensibilità mal riposta (da leggere il gustosissimo libro di Guia Soncini a proposito ‘L’era della suscettibiltà’, Marsilio), unifica sostenitori del tutto e del suo contrario, e si mescola con l’indomabile pulsione ad esibirsi per soddisfare l’urgenza di vendette, frustrazioni e bambinate. L’ultimo esempio è tristemente rappresentato dalle affermazioni di Maureen Lipman, attrice britannica di indubbio valore il cui nome forse dice poco al pubblico italiano a meno che non gli si ricordi la toccante interpretazione nel film ‘Il pianista’ di Wladislaw Szpilman. La Lipman (lo so, il politicamente corretto proibisce l’uso dell’articolo davanti a nomi e cognomi di donna ma io un po’ me ne frego e un po’ codardamente mi appello alle mie origini milanesi), dicevo che la Lipman se n’è uscita con un imbarazzante commento a proposito dell’assegnazione del ruolo di Golda Meir a Helen Mirren in un film firmato dall’israeliano Guy Nattiv di prossima uscita.
Helen Mirren
Sostiene la Lipman che la Mirren sarà pure una grande attrice (lo è, signora, lo è, si fidi) ma difetta di un quid essenziale per chi voglia interpretare un gigante (gigantessa? resto sul sostantivo maschile) come Golda: colpa della protagonista della pellicola è di non essere ebrea e quindi di non poter interpretare una donna come la Meir. La ragione non è chiara. Forse che la Mirren ha fatto dichiarazioni antisemite e non ce ne siamo accorti? Ha marciato con la banda dei Bds? Ha firmato appelli contro Israele? Se è vero che Helen Mirren non è ebrea ha anche dimostrato di essere un’attrice straordinaria e non solo per le doti mimetiche (basti pensare alla sublime interpretazione della regina Elisabetta in ‘The Queen’ senza avere, credo, nel suo pedigree alcun quarto di nobiltà). Come del resto non aveva nemmeno un briciolo di gaytudine l’indimenticabile Ugo Tognazzi che pure indossò in modo assolutamente convincente – meglio di quanto avrebbero saputo fare tanti attori notoriamente froci ma tremebondi e impauriti all’idea che ‘si sappia’ quel che è arcinoto a tutti - i panni di Renato Baldi, gestore della ‘Cage aux folles’, in una pellicola che quasi mezzo secolo fa metteva in scena una coppia di uomini con gioia e vis comica. Immaginare un mondo e una cultura in cui ognuno rappresenta se stesso in modo fedele e burocratico a me fa paura.
Mentre si abbattono le statue di Cristoforo Colombo e si strappano i ritratti di Winston Churchill, mentre si cancellano dai libri di storia epoche e personaggi che l’hanno fatta nel bene e nel male (soprattutto nel bene) ecco che ora qualcuno resuscita concetti francamente inquietanti secondo i quali gli attori dovrebbero presentare certificati di nascita e di appartenenza etnico-religiosa. Che Dio ce ne scampi e liberi. A dirla francamente il sospetto è che se a dar fiato alla Lipman sia stata la delusione per non essere stata scelta nella parte, ricorrere a un ridicolo politicamente corretto certamente non giova. Affermare la primazia dell’“esperienza vissuta” uccide e mortifica la forza della creatività. Non lo dico io, che di creatività poco ne so, ma Patrick Marber – drammaturgo, sceneggiatore, attore e regista anch’egli inglese - il quale, sul Jewish Chronicle si fa girare i cosiddetti: “L’espressione ‘esperienza vissuta’ mi sta davvero sul cazzo perché è un modo per negare ciò che significa la creatività oltre a negare all’attore il fondamentale diritto e la sfida a diventare qualcun altro per impersonare un altro essere umano di un altro tempo storico, di un’altra cultura, di un’altra religione, di un’altra sessualità e di un altro genere”.
Daniele Scalise