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La Stampa Rassegna Stampa
17.12.2002 Intervista a Netanyahu
Netanyahu alla vigilia della sua visita in Italia

Testata: La Stampa
Data: 17 dicembre 2002
Pagina: 7
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Cadrà anche il tiranno Arafat»
Riportiamo da La Stampa del 17.12.2002:
Gerusalemme. Benyamin Netanyahu è alla vigilia della partenza per l'Europa. Prima in Italia, poi in Francia e Gran Bretagna. Stasera sarà a Roma, dove incontrerà il presidente del consiglio Silvio Berlusconi e il ministro della Difesa Antonio Martino. Il giorno successivo terrà una riunione di lavoro con il ministro degli Esteri Franco Frattini alla Farnesina. Può darsi che a Palazzo Chigi incontri anche Gianfranco Fini: «Dipende da chi il presidente del Consiglio deciderà di invitare», dice una fonte vicina al ministro degli Esteri israeliano, e aggiunge: «Una visita in Israele del vice primo ministro è del tutto plausibile e forse vicina». Nell'intervista esclusiva concessa a «La Stampa», il ministro degli Esteri parla di tutto, ma prima si confida: «Sono molto triste», dice, e appare affranto, abbattuto. Leonardo Mondadori, che si è spento a Milano tre giorni fa, era uno dei suoi migliori amici. «Nel 1986 - dice - avevo pubblicato con Time Magazine un libro sul terrorismo intitolato: "Come l'Occidente può vincere". Leonardo mi mandò un fax chiedendomi se mi interessava pubblicare il libro in italiano con lui. Perché no?, gli risposi. Ci incontrammo a Milano, allora ero ambasciatore di Israele all'Onu: non ci siamo mai più lasciati».


Ministro, perché ha scelto l'Italia come prima tappa?

«E' molto naturale, l'Italia è vicina in due sensi: politico e geografico. La leadership italiana sa di essere parte del mondo occidentale; sa che questo mondo oggi è soggetto a un attacco frontale da parte di un terrorismo spietato sorretto da Stati dittatoriali; sa che Israele è in prima fila rispetto a questo attacco cui dobbiamo rispondere tutti insieme, come un solo uomo».

In realtà sulla questione del terrorismo si fanno molti distinguo in Europa, e Israele in genere non viene vista come un avamposto della lotta generale al terrorismo, quanto piuttosto un casus belli che agita le acque di tutti. Prendiamo il caso di Betlemme, per cui la cristianità si sente angustiata: perché tenete le truppe in città per Natale? Monsignor Sambi, il Nunzio Apostolico, ha detto che è una punizione collettiva contro i cristiani del luogo, che non hanno mai perpetrato un attacco terroristico.

«Innanzitutto purtroppo Betlemme è arduamente definibile, ormai, dopo che i musulmani hanno espulso la maggior parte dei cristiani, come una cittadina cristiana. Ma questo non è importante: noi non attuiamo nessuna punizione collettiva, anzi, apriamo la città quanto si può. Ci limitiamo a rispondere al terrorismo, a specifici avvertimenti di intelligence che ci annunciano che abbiamo terroristi in marcia da Betlemme. Se ce ne andiamo, avremo quasi di sicuro un altro attentato da Betlemme. Lei sa che ne sono venuti non pochi di là, e anche che l'ultimo terrorista kamikaze che ha ucciso 12 fra alunni, mamme, ragazzi sull'autobus numero 20 era di Betlemme. Credo che i cristiani non desiderino festeggiare il Natale con un'esplosione, con ancora tanti morti innocenti».

Tuttavia la vostra presenza armata nelle città palestinesi innesca un ciclo che non ha mai fine.

«Non c'è nessun ciclo di violenza, come si ama ripetere senza riflettere: qui c'è solo un continuo attacco terroristico, e il tentativo di difenderci, di fermarlo. Non è facile: è vero, causiamo perdite non desiderate combattendo in condizioni molto difficili. Ma c'è una bella differenza con la pianificazione sistematica di attacchi alla popolazione civile».

Ma vengono uccisi dei bambini.

«Perché i terroristi si nascondono in mezzo alla popolazione civile, e noi dobbiamo combattere il terrore, arrestare i colpevoli, prevenire le centinaia di attacchi: che farebbe qualsiasi altro Stato, l'Italia, la Francia?»

Ma la trattativa non risolverebbe?

«La trattativa con chi? Abbiamo cercato in ogni modo di convincere Arafat a fermare il terrore in vista di un ritorno al negoziato, senza risultati di sorta: ha continuato a fomentare, a esaltare, a finanziare il terrorismo. Non fermi il terrore se non lo stringi in un angolo».

Cioè costringendo Arafat alla resa, o all'esilio. Lo vuole esiliare? Uccidere?

«Non l'ho mai detto! Ma Arafat dovrà pur ritirarsi, e può darsi che questo sia facilitato con una generale defaillance dei tiranni dopo il disarmo e la destituzione di Saddam Hussein che potrebbe cambiare il panorama generale del Medio Oriente, aiutando l'avvio di un processo di democratizzazione».

Lei si è contrapposto a Sharon, che è considerato dall'opinione pubblica mondiale un uomo di destra, perché mentre lui ammette la creazione di uno Stato palestinese, lei, ministro, invece si oppone. Anche gli Usa propongono una soluzione di due Stati. Ovvero, lei è il più falco di tutti?

«Innanzitutto occorre reciprocità quando si tratta: è Arafat, salvo quando io l'ho costretto a fermare il terrore nei tre anni del mio mandato come primo ministro, non ha mai veramente desiderato due Stati, ma uno Stato solo, la Palestina: si è immaginato che gli israeliani sarebbero stati cacciati via dai palestinesi, via da Tel Aviv, da Haifa, come gli Hezbollah, secondo lui, ci hanno cacciato dal Libano. Ora, per essere chiari, noi non vogliamo governare i palestinesi. Ho molti punti in comune con Sharon anche se su tante cose siamo diversi. Ambedue pensiamo che si aprirebbero molte possibilità nuove se le organizzazioni terroristiche fossero smantellate sul serio, se cambiasse il regime e nascesse un governo democratico, se avessimo una riforma ben visibile, se avesse luogo una autentica demilitarizzazione. Cerchiamo di non dimenticare che Israele è minuscolo, che uno Stato palestinese nemico può sparargli missili in casa da ogni parte, può abbattere i nostri aerei da brevissima distanza. Il mondo intero comincia a rendersi conto che non si deve contare su buoni sentimenti inesistenti, che il vizio del terrorismo è orribile e radicato».

L'Europa che lei sta per visitare tuttavia pensa che si debba comporre la situazione israelo-palestinese per battere il terrore.

«L'Europa cerca di risparmiarsi delle dure verità. Nel momento stesso in cui realizziamo che il terrorismo ha una sola radice, si capisce che gli Usa sono il Grande Satana, Israele è il Piccolo Satana, ma l'Europa è un Satana a sua volta, e il terrore la considera suo obiettivo. L'Islam militante non odia l'Occidente a causa di Israele ma Israele a causa dell'Occidente. Perché è un'isola di valori occidentali democratici in un mare di dispotismo. Basta guardare cosa dicono loro stessi: quando nel `98 Bin Laden chiamò alla Jihad, non dette come prima ragione i palestinesi ma la presenza degli Usa nel "luogo più santo dell'Islam", la penisola arabica, culla dell'Islam, di Maometto; la seconda ragione era "la continua aggressione contro il popolo iracheno"; solo all'ultimo posto veniva la causa palestinese».


Sì, ma adesso è diventata la prima. Al Qaeda ha attaccato in Kenya l'Hotel Paradise e l'aereo della Arkia. Al Jazeera, la tv che trasmette in tutto il mondo arabo, ha ricevuto un messaggio di Bin Laden che annunciava la guerra totale agli ebrei. Israele non pensa di rispondere direttamente ad Al Qaeda?

«Non intendiamo prendere nelle nostre mani una guerra contro il terrore che richiede il consenso e l'impegno di tutti i Paesi democratici, e che vede gli Usa in prima fila. Israele è per Al Qaeda un'estensione del conflitto centrale, scelto per mobilitare il mondo arabo al proprio fianco specialmente nell'occasione del conflitto con Saddam».

Ma Israele distrusse il reattore di Saddam nell'81, quando sentì una minaccia specifica.

«Fu un'ottima scelta che ha salvato non solo noi ma il mondo intero dall'uso malvagio che il dittatore iracheno ne avrebbe fatto. Non ho nulla, filosoficamente, contro la prevenzione: avrebbe salvato il mondo in molte circostanze, compresa quella della guerra di conquista di Hitler. Ma qui con prevenzione si intende un'impresa molto grande, mondiale, non solo bellica, ma di progresso generale della democrazia, di abbattimento di regimi che fomentano il terrore: il terrorismo internazionale è basato sui regimi dell'Iran, dell'Iraq, della Siria, dell'Autorità Palestinese, e prima sull'Afghanistan dei taleban, su Kartum... L'elenco potrebbe essere più lungo. Dal tempo della rivoluzione khomeinista alla vittoria dei mujaheddin in Afghanistan con la conseguente crescita di Bin Laden, alla creazione da parte di Arafat di una zona franca per Hamas e la Jihad islamica e altri gruppi, all´enorme ambizione bellica di Saddam, si è creata una rete: per batterla occorre soprattutto l'arma della onesta intellettuale, della chiarezza, che individua il terrore come un nemico, e individua gli Stati sponsor. E basta».


Che ne pensa della visita di Assad a Blair?

«La Siria e una centrale di terrorismo, dà rifugio a decine di organizzazioni, protegge Saddam Hussein. Probabilmente Assad cerca di confondere le acque, vuole uscire dal radar che inquadra gli Stati sponsor dei terrore. Ma con il terrorismo non ci sono accordi né compromessi, ci pensano loro a dimostrarlo».
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