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La Repubblica Rassegna Stampa
06.01.2022 Bielorussia: un regime oscurantista in Europa. Parla Svetlana Alexievich
Analisi di Pilar Bonet

Testata: La Repubblica
Data: 06 gennaio 2022
Pagina: 28
Autore: Pilar Bonet
Titolo: «La mia Bielorussia è il nuovo gulag»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 06/01/2022, a pag.28, con il titolo "La mia Bielorussia è il nuovo gulag" il commento di Pilar Bonet.

Tempo di seconda mano
Svetlana Alexievich

L’appuntamento con Svetlana Alexievich è a Berlino, nell’enorme e impersonale appartamento dove il Daad (Servizio tedesco per lo scambio accademico) ha accolto la scrittrice nell’autunno del 2020, quando la premio Nobel per la Letteratura 2015 dovette lasciare in fretta e furia la Bielorussia di fronte a un pericolo di repressione ancora reale. «Non so quando potrò tornare nel mio Paese», dice in questa intervista. Alexievich, bielorussa, 73 anni, ha ottenuto la proroga del suo permesso di soggiorno per un altro anno, che spera di trascorrere in una casa più piccola e accogliente. La scrittrice era membro del Consiglio di coordinamento delle proteste contro i brogli e le brutali violenze durante le elezioni presidenziali della Bielorussia, che l’8 agosto 2020 proclamarono vincitore Aleksandr Lukashenko (al potere dal 1994). Durante la repressione che seguì, Alexievich fu interrogata dal comitato investigativo bielorusso. Alcuni diplomatici stranieri e funzionari internazionali, che avevano tenuto sotto osservazione la sua casa a Minsk per diverse settimane, l’accompagnarono all’aeroporto alla fine di settembre per dare l’allarme se ci fossero stati impedimenti alla sua partenza. Non ce ne furono. Alexievich si trova bene in Germania, dove era già stata in esilio nel primo decennio di questo secolo, quando ricevette minacce per il suo libro Ragazzi di zinco (E/O), voci sovietiche della guerra in Afghanistan. «Le mie condizioni di vita sono molto buone, ma sopportare l’esilio ora mi è più difficile che la prima volta, perché allora ero più giovane», spiega. A Berlino, la scrittrice ha iniziato un nuovo libro, e per il momento ha interrotto quello sull’amore e la vecchiaia, a cui ha dedicato tanto tempo e lavoro. Invece di esplorare la felicità personale al di fuori della politica, si concentra adesso su una nuova opera corale, i cui protagonisti sono i suoi stessi concittadini, i bielorussi che — per aver osato chiedere elezioni giuste — sono uccisi, torturati o languono in sinistre prigioni. «Mi piacerebbe finirlo entro un anno, ma vedremo che cosa riesco a fare. Non ho una data, ma ci vogliono nove mesi per partorire una creatura. Non mi dedico solo a elencare orrori, ma cerco uno sguardo nuovo, che faccia riflettere», dice. Da Berlino, Alexievich viaggia in altre città, in altri Paesi europei, per ascoltare le voci provenienti dal Paese che Lukashenko ha trasformato in un “nuovo Gulag”.

Lukashenko respinge le accuse, 'il bersaglio è Mosca' - Mondo - ANSA
Aleksandr Lukashenko

«Oggi abbiamo un “arcipelago Gulag” a misura della Bielorussia. Quello che sta succedendo lì oggi è assolutamente paragonabile al mondo di Alexander Solzhenitsin », dice. «La gente ha paura, perché in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, nelle città o nei villaggi, possono entrare in casa tua e arrestarti», afferma. E continua: «In Bielorussia, la gente vive già come nei libri di Solzhenitsin, con una valigetta di emergenza pronta, un piccolo zaino con l’essenziale, uno spazzolino da denti, un cambio di vestiti, per i primi giorni in prigione». Ci sono differenze di scala e di profondità tra il Gulag sovietico e il Gulag bielorusso. «Stalin aveva delle idee. Ora non ci sono idee, solo il desiderio di mantenere il potere. Lukashenko è riuscito a sporcare di sangue la polizia e le guardie carcerarie mettendole in un vicolo cieco, minacciando rappresaglie se dovesse accadergli qualcosa». In Bielorussia, le guardie del regime «picchiano senza sapere in nome di che cosa ». La scrittrice avverte: «La repressione non ha ancora raggiunto il livello di Solovki (il duro campo di lavoro del Gulag sul Mar Bianco), ma la tendenza è quella. Si può trasformare una persona in un pezzo di carne solo perché vuole libere elezioni, che è ciò che è scritto nella costituzione? ». Alexievich dice di essersi sentita male quando ha visto le foto con cui un medico ha documentato le condizioni dei feriti ricoverati al pronto soccorso dopo le manifestazioni. La polizia voleva cancellare ogni traccia e aveva proibito ai medici di scrivere i referti. Racconta poi un testimone: «Il capo di un servizio sanitario si era lamentato con un capo della polizia per le condizioni dei feriti. Il poliziotto, a sua volta, rimproverava il medico per aver mandato medici piagnucolosi e troppo sensibili (nei luoghi dove la polizia era intervenuta contro i manifestanti) e poi riattaccò. Un giovane medico avvertiva coloro che arrivavano all’ospedale con traumi e segni di violenza che era obbligato a denunciarli e raccomandava loro di andare il più lontano possibile».

Polonia, Ucraina, Lituania o Germania sono stati la meta di chi ha seguito queste raccomandazioni. Tutti i membri pubblici del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa sono oggi in esilio o in prigione. «Alcuni degli esiliati preferiscono rimanere anonimi per proteggere i loro familiari in Bielorussia», dice. Nel suo Paese, Alexievich non avrebbe potuto scrivere il libro a cui sta lavorando ora, perché «avrei vissuto nella costante paura di essere arrestata e di vedermi confiscare i manoscritti». L’autrice vuole andare oltre una raccolta di testimonianze sulla brutalità e indaga sulle origini del male e le radici del sadismo. Come fonti utilizza interviste, lettere e documenti pubblicati, come “ultime memorie” degli imputati prima del verdetto del tribunale. Alexievich ammette di essere stata troppo frettolosa nel definire finita l’era dell’uomo sovietico. «Non solo non era finita, ma si riproduce nei giovani in uniforme e si mantiene in una parte della popolazione», dice. «Negli anni Novanta scendemmo in piazza chiedendo la libertà, abbattemmo il monumento a Felix Dzerzhinsky (il fondatore della Ceka, la polizia politica sovietica), ma poi divenne evidente che quelle erano solo parole e ora, trent’anni dopo, si aprono musei dedicati a Stalin, si sostiene che l’abbattimento di di Dzerzhinsky fu illegale e si vuole proibire l’associazione per i diritti umani Memorial. Questo significa che la democrazia sta andando indietro», dice. «Una persona che esca dal campo di concentramento dove ha trascorso tutta la vita non può essere libera da un giorno all’altro. Solo ora ci rendiamo conto che c’è molta strada da fare», dice. «Quando stavo scrivendo Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani) e arrivavo a Mosca dopo essere stata nelle province russe, i miei interlocutori non mi credevano se dicevo loro che le persone libere di cui parlavano non esistevano », spiega Alexievich. «In Russia, l’opposizione alla dittatura era uno strato molto sottile. In Bielorussia, l’anno scorso, mezzo milione di persone sono scese in strada e ricordo la sensazione di festa che provavamo, non avevo mai visto così tanta bella gente insieme. Ci guardavamo ed eravamo felici di essere in tanti, di non essere soli. Sembrava che, vedendo quanti eravamo, Lukashenko si sarebbe spaventato e se ne sarebbe andato. Era un’ingenuità totale. Oggi, mezzo milione di persone, le più attive, sono all’estero, perché in Bielorussia rischiano il carcere», dice.

Come si può mettere fine al regime di Lukashenko? «È una domanda difficile. Svetlana Tikhanovskaya (la moglie del candidato alla presidenza oggi in carcere Sergei Tikhanovsky, che molti riconoscono come la vera vincitrice delle elezioni del 2020) è maturata. Ognuno deve fare quello che può. Quelli che sono rimasti in Bielorussia devono stare attenti, perché scendere in strada può significare cinque o sei anni di prigione. Il Consiglio di coordinamento rimane attivo e ha molti nuovi membri, i cui nomi sono segreti. Noi che siamo fuori facciamo appelli, scriviamo lettere, ma chi lavora nella clandestinità in Bielorussia fa molto di più. Per me, oggi, la cosa principale è scrivere il mio libro». Secondo le liste compilate dalle associazioni per i diritti umani, il numero di prigionieri politici in Bielorussia è vicino al migliaio. Tra questi c’è Viktor Babarikho, il rispettato banchiere e raffinato mecenate che voleva competere con Lukashenko per la presidenza. Babarikho è stato condannato a 14 anni di prigione da un tribunale che lo ha ritenuto colpevole di riciclaggio e corruzione. Tra i prigionieri c’è Maria Kolesnikova, che aveva diretto la campagna presidenziale di Babarikho, condannata a 11 anni per “cospirazione”. Sergei Tikhonovsky è stato condannato a 18 anni di prigione poco dopo questa intervista. In prigione in Bielorussia c’è Alexandr Feduta, politologo, filologo e critico letterario, arrestato a Mosca nell’aprile 2021 ed estradato in Bielorussia, dove è accusato di tentato colpo di Stato. E c’è anche Guennadi Mozheiko, corrispondente in Bielorussia del giornale russo Komsomolskaya Pravda, costretto a lasciare Mosca, dove si era rifugiato, per tornare a Minsk, dove è poi scomparso. Si trova in prigione anche la cittadina russa Sofia Sapega, che accompagnava il blogger Roman Protasevich sull’aereo Ryanair costretto ad atterrare a Minsk lo scorso maggio. «La Russia ha sostenuto Lukashenko fin dall’inizio. È comprensibile, perché le rivoluzioni che portano la democrazia sono contagiose», dice la scrittrice. Mentre parliamo, Alexievich riceve delle telefonate dalla Bielorussia. Sul suo cellulare, arriva la voce della sua amica, la scrittrice Maria Vaitziashonak, che vive ancora a Silichy, in quella dacia bucolica a 40 chilometri da Minsk dove Svetlana avrebbe voluto scrivere, guardando i campi di grano e le colline. L’appartamento che la scrittrice comprò a Minsk dopo aver ricevuto il premio Nobel è rimasto vuoto. Da quel magnifico osservatorio, là dove il fiume Svislach si allarga, la scrittrice si commosse contemplando la marea dei manifestanti che sventolavano enormi bandiere rosse e bianche. Poi presero il sopravvento i carri armati e lei capì che il mondo sovietico non era finito.
Traduzione di Luis E. Moriones

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