|
|
||
Solidarietà araba e rifugiati
Analisi di Michelle Mazel
(traduzione di Yehudit Weisz)
Mentre in Europa ci si preparava a festeggiare Natale, una piccola imbarcazione è affondata nel Mar Egeo con tutti i suoi passeggeri: erano dei siriani, che avevano lasciato la Turchia nella speranza di raggiungere le coste italiane. Una tragedia diventata talmente quotidiana - secondo le statistiche degli ultimi anni ben cinque persone al giorno - che non suscita alcuna reazione se non quella degli Stati che si barricano dietro i propri confini per sbarrare loro il cammino. Dei rifugiati, eh sì, il mondo ne ha conosciuti tanti in cento anni! Non si tratta solo della vecchia Europa e della devastazione creata da due guerre mondiali, ma c’è stato anche lo shock della spartizione dell’India nel 1947, con conseguenti trasferimenti di popolazione che hanno coinvolto centinaia di milioni di persone.
Nel contempo, i conflitti in Medio Oriente avevano spinto sulla strada dell’esilio 800.000 ebrei, spogliati di tutto, anche del diritto alla nazionalità dei Paesi in cui avevano vissuto per secoli. Hanno conosciuto giorni difficili prima di ricostruire le loro vite, con il sostegno incrollabile delle organizzazioni ebraiche sparse in tutto il mondo e in Israele. I rifugiati arabi dello stesso conflitto, stimati in meno di 800.000, non hanno avuto la stessa fortuna. Non c’è stata solidarietà. I loro fratelli dei Paesi vicini, musulmani come loro e che parlano la stessa lingua, lungi dall'accoglierli a braccia aperte, hanno voltato loro le spalle e li hanno parcheggiati nei campi dove si trovano ancora oggi, dopo più di tre quarti di secolo, dipendenti dalle sovvenzioni dall'UNRWA, questa organizzazione creata dall'ONU nel 1949 per aiutarli a reinserirsi. Ce ne sono in Libano, Siria, Giordania e ovviamente nei territori dell'Autorità Palestinese. Non verrebbe mai in mente ai potentati del Golfo, nei loro sontuosi palazzi da mille e una notte, di destinare una minuscola, un’infima parte delle loro immense ricchezze per lenire le loro sofferenze. Ma non sono questi i rifugiati che tentano la traversata con tutti i suoi rischi, alla ricerca di una vita migliore in Europa. Sono degli altri arabi, dei siriani, degli afgani, degli iracheni o addirittura sono degli africani provenienti da Paesi islamici. Alcuni fuggono dalla violenza, dalla guerra con la sua sequela di attentati e massacri; altri dalla miseria, dalla fame e dalla mancanza di speranza. Sono pronti a tutto: a dare tutto il poco di denaro che hanno a dei trafficanti, arabi come loro, che pretendono somme esorbitanti ma che raramente mantengono le loro promesse; alla fine di viaggi lunghi e pericolosi, sono ridotti a fidarsi di loschi scafisti che li stipano in imbarcazioni di fortuna, vecchie carrette del mare, o addirittura gommoni, spesso privi di giubbotti di salvataggio e di provviste. Devono poi rischiare la vita attraverso un mare spesso agitato, nella speranza di raggiungere questa terra dell'abbondanza che è l'Europa ai loro occhi. Eppure sanno fin troppo bene che i loro correligionari, già stabiliti nel vecchio continente, dove vivono già a decine di milioni, non verranno in loro aiuto.
|