Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 21/12/2021, a pag.VI, con il titolo "Il Cile socialista di Boric", l'analisi di Cecilia Sala.
Cecilia Sala
Gabriel Boric
Ieri per le strade del Cile si cantava "El pueblo unido jamás será vencido". La musica degli Intilimani, sparata a tutto volume, arrivava dalle finestre e dagli stereo delle macchine. Che l'eccezione cilena fosse finita lo sapevamo da quando al ballottaggio di domenica sono andati un candidato di estrema destra e un outsider alleato con il Partito comunista. Ha vinto il secondo, il millennial Gabriel Boric ha battuto il nostalgico di Pinochet José Antonio Kast, e sarà il nuovo presidente. E' dal golpe del 1973 che non si vedeva una proposta politica tanto vicina al socialismo di Salvador Allende come quella del neoeletto. E, dai tempi del ritorno alla democrazia, nessuno aveva osato presentare un programma tanto simile a quello di Pinochet come ha fatto Kast. Lui piace molto a Donald Trump e a Matteo Salvini, e nel fine settimana ha ricevuto gli auguri affettuosi di entrambi. Mentre dopo lo spoglio Boric ha festeggiato e poi ha parlato al telefono con il presidente uscente Sebastián Piñera, promettendogli che lui sarà "il presidente di tutti".
Ma non è vero, e lo sa. Il Cile democratico non era mai stato tanto diviso e gli elettori ex moderati che negli ultimi tempi si sono radicalizzati a destra, votando Kast, sono tanti (il 44 per cento). Odiano Boric e quello che dicono oggi è: "Faremo la fine del Venezuela". Il Cile - che da trent'anni era l'esempio decisamente isolato di una democrazia liberale e stabile in America latina, che non faceva scherzi e non regalava particolari sorprese - è sparito. Insieme quelli che lo governano dal 1990, quando è tornata la democrazia. Al primo turno sono andati malissimo prendendo la metà dei voti che erano abituati a raccogliere, o meno della metà. Il loro tracollo era cominciato due anni fa, quando el Chile despertò (il Cile si è svegliato) - direbbero i protagonisti delle proteste che hanno sconvolto il paese alla fine del 2019 e che, con diverse intensità, sono continuate fino ad oggi. Nonostante la pandemia e il coprifuoco, che lì era arrivato molto prima e per gli scontri, non per il Covid. Nella capitale l'atmosfera era apocalittica e festosa allo stesso tempo. C'era la musica e tantissimi giovani, le bandiere colorate della minoranza Mapuche, la danza delle femministe che aveva fatto il giro del mondo e le scritte con le bombolette spray fluorescenti che coprivano ogni centimetro dei muri nel centro della città. Ma poi c'erano camionette e militari ovunque, carcasse di automobili date alle fiamme, palazzi incendiati, vetrine dei supermarket in frantumi, passamontagna e picconi abbandonati sull'asfalto. Sui muri, tra le scritte, c'erano anche tantissimi manifesti che ritraevano il presidente ghigliottinato. E poi sulle serrande dei negozi e sulle fiancate delle automobili compariva un altro degli slogan della protesta, quello contro il patriarcato: "Un macho morto non stupra!". Adesso la direzione del Cile è chiara ed è una netta virata a sinistra. Se avesse vinto Kast il nuovo assetto istituzionale sarebbe stato schizofrenico: al palazzo presidenziale un populista di estrema destra che promette legge, ordine e repressione mentre la nuova Costituzione la stanno scrivendo i manifestanti, che Kast considera più o meno dei terroristi. Gabriel Boric - in una versione più barricadera dell'attuale - è stato uno dei volti di quella protesta e insieme ai suoi compagni, dalla piazza, aveva chiesto un referendum per abrogare la Costituzione.
Il presidente prima ha risposto che non se ne parlava affatto, poi ha capito di dover fare i conti con la determinazione dei manifestanti e che neanche l'esercito li avrebbe fermati. Doveva cedere, così viene indetto il referendum costituzionale. In quei giorni accadono due episodi che sconvolgono tutti. Il primo: i manifestanti entrano nella chiesa gotica di San Francisco de Borja. Spaccano le statue dei santi e le madonne, danno fuoco all'altare e poi alla struttura: crolla il campanile inghiottito dalle fiamme. Il secondo: c'è un troncone del corteo che sta sfilando su un ponte, un militare prende dalle gambe un manifestante di sedici anni e lo butta di sotto. Il ragazzino ha tutti gli arti fratturati, lividi ovunque e un'emorragia cerebrale molto grave, ma sopravvive per miracolo. Il Cile è sotto choc, non è proprio abituato a questo genere di cose. E' un posto sicuro, con il più alto reddito pro capite del subcontinente e uno dei paesi con le diseguaglianze economiche minori. Proteste così non se n'erano mai viste. Il Partito comunista (fino all'alleanza vincente con Boric) non si era più affacciato sulla scena politica e sembrava che il capitalismo fosse un sistema accettato da tutti. Poi migliaia di persone hanno cominciato a gridare cori contro le multinazionali e anche "Morte all'Enel!", "Morte alle Generali!" - per quanto riguarda la prima, hanno anche dato alle fiamme la sede nel centro della capitale. Molte delle grandi società italiane sono leader nel proprio settore in Cile. Episodi come quelli di San Francisco de Borja e del ragazzo scaraventato giù dal ponte hanno messo una gran paura a tutti. Dopo la paura è arrivata la rabbia che con i mesi si è trasformata in rancore, verso l'esercito e verso il governo, oppure verso i manifestanti. Insieme al caos prolungato, ha radicalizzato le posizioni degli elettori sia da una parte che dall'altra. Genitori tutt'altro che estremisti - con figli adolescenti che tornavano a casa dopo i pestaggi nelle caserme o sparivano per giorni senza che nessuno ne desse notizia - hanno cominciato a odiare partiti che fino a poco tempo prima votavano. In quella fase la protesta era molto potente e il suo consenso era ancora alto ma, sottotraccia, cominciava a montare il fronte di quelli a cui la risposta con il pugno di ferro non dispiaceva affatto.
Chi stava facendo questo ragionamento solo pochi anni prima aveva votato il candidato del centrodestra Piñera e lo aveva eletto presidente. Ma lui li aveva traditi: aveva ceduto. Non voleva: quei manifestanti che sua moglie ha definito "degli alieni" e che lo ritraggono ghigliottinato non gli piacciono affatto. Ma Piñera doveva gestire un'emergenza nazionale (anzi due, visto che intanto c'era una pandemia) ed evitare un'escalation della protesta che ormai veniva percepita come qualcosa di simile a una guerra civile. Il presidente ha accettato di fare il primo passo verso i manifestanti nella speranza di calmare gli animi, e ha smesso di opporsi al referendum. La sua previsione era azzeccata: dopo quell'appuntamento, le manifestazioni non sono più state altrettanto violente e gli esempi della brutalità dei militari si sono fatti meno frequenti. Il costo politico è stato alto: molti degli storici sostenitori di Pillera hanno visto solo il tradimento, non la relativa pace appena ritrovata. Hanno pensato che avesse consegnato la vittoria a dei giovani troppo agitati e ai loro mentori tra gli anarchici e i comunisti. Hanno cominciato a guardarsi intorno alla ricerca di un nuovo rappresentante delle proprie istanze, e hanno guardato molto più a destra. Presto li avrebbero trovato Kast. La Costituzione viene abrogata con oltre l'80 per cento dei voti. Il secondo quesito referendario chiedeva di scegliere tra una nuova assemblea costituente mista, con un po' di semplici cittadini che avevano preso parte alle proteste e un po' di parlamentari. Oppure un'assemblea dove i rappresentanti delle istituzioni sarebbero stati estromessi. La classe dirigente cilena si augurava che, almeno, avrebbe vinto la prima opzione. Doveva essere un'occasione di riconciliazione tra cittadini e istituzioni e altrimenti, pensavano: non si tratta più di una riforma radicale, ma di una rivoluzione. Rivoluzione fu. Si torna a votare per scegliere quei rappresentanti ed è un esperimento di democrazia direttissima. Si candidano i manifestanti e si affastellano le istanze populiste più disparate. Tra loro viene eletto anche uno dei personaggi più iconici delle proteste: Pikachu, il Pokémon.
Dentro al costume gonfiabile giallo acceso di Pikachu, presente a ogni corteo, c'è una quarantenne che fa l'autista di scuolabus e si chiama Giovanna Grandón. Vive in un quartiere povero di Santiago ed è cresciuta in uno squat, un locale occupato. Pochi giorni prima dell'inizio delle manifestazioni suo figlio Diego era nella sua stanza mentre lei e il marito stavano cenando in cucina. Diego si era portato in cameretta il telefono del padre, dove c'era salvata la carta di credito. Nessuno sa cosa gli sia passato perla mente quella notte, ma va sul sito di un rivenditore autorizzato e compra una montagna di gadget di Pikachu di ogni genere e dimensione per un totale di oltre settecento dollari. Quando i genitori lo scoprono, sgridano Diego e poi si disperano. Non si possono proprio permettere acquisti per quelle cifre, figuriamoci se si tratta di un esercito di peluches, gonfiabili e costumi carnevaleschi a forma di topo giallo. La casa viene inondata dai pacchi, per riavere un po' di soldi i genitori di Diego iniziano a rivendere tutto quello che possono. Tengono solo un enorme costume giallo che avrebbero potuto usare per Halloween, a cui mancavano solo poche settimane. Ma l'inizio delle proteste arriva prima, e Giovanna Grandón decide di presentarsi indossandolo. Non si può neanche immaginare come sarebbe cambiata la sua vita - e il suo paese - di lì a poco. All'inizio non era convinta di essere la persona adatta per scrivere la legge fondamentale dello stato: "Non ho studiato, sono cresciuta in uno squat, quelli come me non entrano in politica". Poi ha messo da parte la timidezza. Ora - mentre Boric inizia ad abbozzare le sue proposte di riforme di stampo socialista - a Giovanna Grandón spetta scrivere la Costituzione. Il problema è che, al momento, non assomiglia tanto a un sistema organico di regole e principi, ma a una lista dei desideri. Anche all'Assemblea costituente, lei si è sempre presentata vestita da Pikachu.
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