Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi 14/12/2021, a pag.11 con il titolo "Dei ragazzi nati per uccidere", il commento di Diego Gabutti.
Diego Gabutti
Nicola Ventura e David Barra,
Borghesia violenta. I «bravi ragazzi» del terrorismo italiano, Gog 2021, pp. 250, 17,00 euro
In anticipo su ogni altro «intelligent» del suo tempo, è Nicola Chiaromonte ad accorgersi, nel 1967, che «la politica oggi è diventata un'evasione, come il cinematografo e gli altri modi di uccidere il tempo residuo che ha l'abitante delle metropoli» (La bestia meccanica, in N. Chiaromonte, Lo spettatore critico, Mondadori 2021, un libro sul quale torneremo). E sempre nel 1967 che il situazionista Guy Debord pubblica La société du spectacle, un testo molto più oscuro dei saggi di Chiaromonte ma non di meno eloquente, nel quale sostiene che «l'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione».
Un anno dopo è il Sessantotto, da noi un anno infinito, che si prolunga fino ai primi ottanta: le forme della politica, se mai lo sono state, da questo momento non sono più «il riflesso dei conflitti sociali» ma di quello che Tom Wolfe, qualche anno dopo, chiamerà Il decennio dell'Io (Castelvecchi 2013). E di questo mondo votato all'autorealizzazione e all'autocelebrazione (un mondo nel quale la gioventù engagé ha per modello una mostruosa chimera per un terzo Julius Evola o Mao Zedong e per due terzi Clint Eastwood) che racconta la storia Borghesia violenta di Nicola Ventura e David Barra: un salto nell'abisso delle vite forse non esemplari ma memorabili dei più significativi terroristi italiani, dai due fratelli Fioravanti a Marco Donat-Cattin. Pub sembrare una normale pagina di storia nazionale, non così diversa dalle pagine nelle quali si raccontano i tumulti del primo e secondo dopoguerra, ma si tratta in realtà d'un viaggio nel «decennio dell'Io» di Tom Wolfe. Newyorchese puro, è a partire anche da un viaggio nell'Italia dei disordini giovanili che Wolfe comincia a prendere appunti per il suo pamphlet, un sequel del classicoRadical Chic. «Nel 1971», scrive Wolfe, «tenni un giro di conferenze in Italia, parlando della «vita americana contemporanea». Dovunque andavo, da Torino a Palermo, gli studenti italiani si mostravano interessati a una sola domanda: era proprio vero che in America i giovani della loro età se ne andavano da casa per vivere comunitariamente secondo loro regole particolari? [...] Per gli studenti italiani questo fatto sembrava inverosimile. Parecchi degli studenti da me incontrati conducevano durante le ore diurne un'esistenza sfrenata. Militavano in organizzazioni estremiste e si erano accanitamente scontrati con la Polizia, sulle barricate. Però alle venti e trenta in punto tornavano a casa, si lavavano ubbidientemente le mani prima di cenare con Mamma e Papà e Fratellino e Sorella e la Zia Zitella. Quando se ne andavano da casa definitivamente, lo facevano tramite l'unico biglietto di viaggio ammissibile: il matrimonio. I figli scapoli di trentotto e trentanove anni restavano seduti intorno alla solita vecchia tavola, a masticare scontrosamente gnocchi o spaghetti».
Sono questi gli extraparlamentari italiani, terroristi compresi: cattivi studenti di scuole allo sbando, cocchi di mamma, consumatori di canzonette smielate, lettori di Tex Willer e di memoir di guerrilleros sudamericani sbruffoni e cacciaballe. Sono membri d'una banda, come i ragazzi della Via Paal, o meglio d'un branco (che però chiamano «collettivo», imbellettendolo). Sono indifferentemente di destra o di sinistra: è con loro, anzi, che queste definizioni, utili alla politica in tempi più sobri, perdono senso e sostanza, fino a svanire, col tempo e le nespole, nelle nebbie del populismo. Beninteso: con «terroristi» è sbagliato intendere chiunque fosse coinvolto nelle attività clandestine: tifare per le P38 maneggiate da altri era tipico dei consumatori di western all'italiana che «uccidevano il tempo residuo» nei gruppuscoli. Qualcuno di loro veniva magari coinvolto in un'azione, ma si defilava in fretta perché la fiction è una co- sa, la realtà tutt'altra. Terrorista in senso proprio era (e rimane) quello che premeva il grilletto, accoppava un innocente e poi entrava tranquillamente in un bar, dove ordinava un cappuccino, oppure tornava a casa da mamma a mangiare con aria scontrosa «un piatto di gnocchi o spaghetti»: Valerio Fioravanti (ex divetto televisivo) che finisce con un colpo in fronte il poveretto che lui e compari del branco hanno già imbottito di piombo; Marco Donat-Cattin (figlio d'un ministro in carica della repubblica) che uccide e svaligia banche con indifferenza, Alessandro Alibrandi (figlio d'«uno dei più noti magistrati di Roma») che intrallazza con i malavitosi nel giro delle rapine e dell'usura, gli studenti di medicina che sfondano il cranio di Sergio Ramelli a colpi di chiave inglese (non volevamo fargli troppo male, è che «di chiavi inglesi non avevamo esperienza»).
Ai tempi la parola era «terroristi», come più tardi la parola sarà «jihadisti», ma è chiaro che la parola, allora come adesso, è «psicopatici». Costoro si distinguono dai serial killer solo per il fatto che si raccolgono intorno a una bandiera e che professano una metafisica (ma lo faceva, ai suoi tempi, anche Jack lo Squartatore, nella convinzione d'essere un riformatore sociale). A spiegare gli assassini seriali in quota neofascismo e comunismo radicale non è l'ideologia, per quanto aberrante, di cui quei terroristi si sono fatti paladini, ma è il lato oscuro della condizione umana, il «bug» genetico di cui sono portatori: chiunque altro, al loro posto, disponendo di freni inibitori e di senso morale, non potrebbe più prendere sonno né guardarsi allo specchio dopo aver assassinato per ragioni incomprensibili un innocente, o dopo aver ucciso la persona sbagliata («un incidente di percorso», che sarà mai). Loro invece dormono benissimo. Sono terroristi ma anche mafiosi, mercenari «born to kill», kapò dei lager stalinisti e nazisti, guaglioni 'e malavita di Gomorra. Di questi squilibrati si possono raccontare le storie, gli amori, le amicizie e le sciagurate imprese, come fanno Barra e Ventura nel loro libro, che si legge d'un fiato. Ma è bene ricordare che sono le storie non di casi umani ma di casi clinici, di nosferatu politici, di mostri morali. Succede tutto allora: a cavallo tra gli anni sessanta e gli anni settanta. Cresciuta in breve a spettacolo, a show del «mondo che ci siamo lasciati andare a credere», come scriveva Chiaromonte, la politica militante abbandona il campo della ragione, di cui era una delle manifestazioni pratiche, per finire prima sotto incantesimo ideologico e per adattarsi poi alle vanità e ai narcisismi di quello che Tom Wolfe battezzerà «decennio dell'Io» e per trasformarsi, infine, nell'estremo spettacolo delle P38, delle 44 Magnum, dell'esibizionismo armato, dei ««bravi ragazzi» del terrorismo italiano». Giorgio Scerbanenco, anche lui nel 1966 o nel 1967, scrive una storia intitolata Bravi ragazzi bang bang (lo trovate in Scerbanenco: Milano calibro 9, Garzanti 1969). Come gli altri suoi romanzi dell'epoca, è uno sguardo profetico sul nostro immediato futuro, sulle derive horror della condizione umana.