Le debolezze degli uomini andrebbero storicizzate. Una nota su storiografia e processi postumi
Analisi di Alberto Cavaglion
(da StoriAmestre.it)
Alberto Cavaglion
«Fare i conti con il passato», «fare i conti con il fascismo». Sono espressioni che ritroviamo in molta storiografia e anche in molte pubbliche conversazioni. Non escludo di essermene servito io stesso, ma ho fatto in tempo a pentirmene. Da un lato lavori molto seri si sono mossi lungo il crinale fra fascismo e postfascismo; dall’altro lato è andato diffondendosi un cliché accusatorio e moralistico discutibile: i fantasmi del fascismo tendono a confondersi con il sottile piacere di macchiare l’immagine di questo o quell’altro grande personaggio, svelandone «terribili segreti». Le debolezze degli uomini andrebbero storicizzate, analizzate una per una. Un conto è insegnare in un ateneo più di altri fascistizzato, studiare Machiavelli o Meinecke, scrivere una recensione compiacente su Roma imperiale o una voce di enciclopedia accomodante sul Concordato, iscriversi al Pnf o alla Milizia o giurare fedeltà nel 1931 per poter continuare a lavorare e mantenere la propria famiglia. Altra cosa è tacere sulle leggi del 1938 oppure esaltare i successi militari del fascismo fino alla vigilia dell’8 settembre 1943. Si tratta di spogliarsi di un infantile moralismo, tanto più se il tribunale chiamato a giudicare è quello del mondo universitario italiano, dove, abbagliati da un sole assai meno accecante, quello della propria carriera, chierici lesti a tradire il proprio mandato se ne sono visti e se ne vedono in giro parecchi. Ci sarebbe poi da aggiungere che il conteggio delle vigliaccherie altrui, ha una sua storia, che ne svela il carattere ibrido, ambiguo, politicamente trasversale. Una storia che dovrebbe indurre a tenerci lontani da questi esercizi che spesso sono di puro moralismo. Qualche prima informazione su una tradizione storiografica non sempre edificante penso sia opportuno fornirla. Intellettuali sotto due bandiere: s’intitolava così un volume di Nino Tripodi edito a più riprese da Ciarrapico nel 1978, che tutti abbiamo compulsato: chi per necessità di ricerca volendo ripescare articoli introvabili in biblioteca, chi per puro amore di pettegolezzo. Era scritto da un fascista non pentito, ma lo stimolo a scavare nelle altrui manchevolezze si sarebbe riversato presto dalla destra neofascista alla storiografia marxista. Il passo fu breve e non disagevole. Tre anni dopo Tripodi, la svolta imprevista, di cui vorremmo qui trattare.
Arnaldo Momigliano
Nel 1981, usciva da Einaudi Ideologie del classicismo di Luciano Canfora (1942), con un attacco frontale a Felix Jacoby e Arnaldo Momigliano. Il primo, deceduto da tempo, veniva accusato di aver paragonato l’imperatore Augusto a Hitler sulla base di una testimonianza resa mezzo secolo dopo da un suo ex studente; il secondo per una recensione su Roma imperiale pubblicata negli anni Trenta. Nel pieno della sua maturità, Momigliano comprese la novità di quell’attacco e rispose sulla Rivista storica italiana in difesa dell’onore di Jacoby e naturalmente anche in difesa di sé stesso, chiamando i lettori a giudicare le dieci righe di quella sua scheda bibliografica. Nella seconda metà del Novecento italiano non vengono in mente altre recensioni capaci di suscitare un terremoto di eguali dimensioni, le cui scosse di assestamento si percepiscono ancora nel 2021. Una scossa tellurica senza precedenti, tutta (o quasi tutta) confinata nelle annate della rivista di Canfora Quaderni di storia. Sul fragore della recensione di Momigliano a Ideologie del classicismo, un testo per certi versi drammatico, che sfiora i toni dell’invettiva dantesca, si soffermò da par suo Carlo Dionisotti, che per primo s’accorse di quanto stava iniziando ad accadere con l’uscita di quel libro. Per la prima volta la generazione di quegli studiosi che avevano ceduto al fascismo si trovava costretta a difendersi dall’attacco di una generazione nuova, «gente esperta e bene addestrata». Nessuno chiede indulgenza, ma conoscenza sì, «e magari anche, per ultima grazia, comprensione»4. Con le parole di Dionisotti, era prevedibile, se la sono presa i classicisti, accorsi in difesa di Canfora. Da ultimo Luciano Bossina, in un lungo saggio uscito quest’anno sempre su Quaderni di storia, che va letto con attenzione, perché svela senza volerlo un particolare che non si conosceva, ovvero il modo in cui Canfora venne a conoscenza del tardivo ricordo dell’ex studente di Jacoby. Tutto ebbe origine da un articolo di Georg Picht (Gewitterlandshaft Erinnerung am Martin Heidegger, «Merkur», 31, 1977), che a p. 962 conteneva il suo ricordo di una lezione in cui Jacoby, benché ebreo, avrebbe paragonato Augusto a Hitler. Bossina ci dice che quell’articolo sarebbe stato segnalato nel dicembre di quello stesso 1977 nientemeno che da Cesare Cases. Momigliano aveva già ironizzato sulla poca attendibilità di una testimonianza resa a così tanti anni di distanza, da parte di uno studente, che nel 1933 «metteva in carta (si deve ritenere stenograficamente) le parole del professore e poi dopo 45 anni le tirava fuori a maggior gloria di Heidegger». Sulla questione, sulla figura di Picht – e sull’uso di una fonte così poco attendibile – s’è accesa con il passare degli anni una infinita controversia, su cui l’estesissimo saggio di Bossina (praticamente un libro, più che un articolo) vorrebbe mettere la parola conclusiva. La questione è semplice: può fondarsi una ricerca storiografica seria su un ritaglio di rivista? Per giunta su una notizia riferita a mezzo secolo di distanza? E la difesa di una metodologia di tale natura può fondarsi su un uso così selettivo delle fonti? Dopo aver letto Bossina, sappiamo quindi che il ritaglio dal Merkur, Canfora non lo scoprì da solo, ma lo ebbe da un germanista e lettore onnivoro come era Cesare Cases, il cui talento non basta ad aumentare l’attendibilità dell’unus testis, il «testimone unico» su cui Bossina indaga per un centinaio di pagine arrampicandosi sui vetri. Bossina si guarda bene – e non è un caso, appunto, quando si lavora da giustizieri – dal riferire la cosa più importante. Nello stesso saggio (p. 14, nota 2), senza rendersi conto del pessimo servizio che rende a Canfora, in qualità di suo avvocato difensore, rinvia allo scambio epistolare che sulla questione vi fu in quegli stessi mesi tra Cases e Sebastiano Timpanaro. Naturalmente non riferisce che cosa sia Cases sia Timpanaro pensassero – concordando tra loro – della scuola dei «filologi progressisti» gravitanti intorno alla rivista Quaderni di storia. E tanto meno riporta il giudizio sul libro di Canfora, uscito per i tipi di una casa editrice di cui Cases era stretto collaboratore, ma non al punto di scrivere lui «l’unico blurb quasi-antisemita della casa editrice Einaudi», commentava sarcastico Momigliano nella recensione, riportando le parole esatte del lancio pubblicitario: «In Germania, l’ebreo tedesco, poi esule a Oxford, Felix Jacoby apriva a Kiel il semestre estivo del 1933 ricordando che ‘nella storia universale Augusto è l’unica figura che si possa comparare con Adolf Hitler’. Semplice fenomeno di opportunismo?». Il giudizio su Canfora, su quel libro e su quella scuola si trova bene enunciato in una successiva lettera di Cases del 24 dicembre 1978 contenente parole durissime su quanto stava accadendo e sul perché quel libro di Canfora segnasse una svolta. Come Dionisotti, anche Cases e Timpanaro erano consapevoli del cambiamento in atto nella indagine sul rapporto tra intellettuali e fascismo. Scrive Cases in un passaggio della lettera a Timpanaro, che Bossina si guarda bene dal citare: «[La mia reazione a Canfora era dovuta] al fastidio nel vedere la caccia al fascista trasformarsi in una specialità accademica (con relative nuove cattedre). Dopo la guerra essa poteva avere se non altro un valore politico, ma oggi mi sembra che sia un’ennesima variante degli alibi postsessantotteschi: siccome gli sfoghi politici non ci sono, si salva l’anima prendendosela con la cattiva politica dei defunti».
Dal 1978 in avanti la cattiva abitudine di prendersela con la cattiva politica dei defunti e dunque a salvarsi l’anima ha continuato a essere un alibi per sfoghi politici che non esisteranno più. A farne le spese, a tanti anni di distanza dalla morte, è sempre soltanto Arnaldo Momigliano. E la cosa francamente deprime essendo diventata una caccia postuma. Si attende, con una certa trepidazione, il carteggio fra Momigliano e Timpanaro, annunciato da tempo, che conterrà altre informazioni utili sulla scuola dei filologi progressisti, ma nell’attesa dobbiamo fare i conti con Bassina e soprattutto con Giorgio Fabre, di gran lunga il più zelante dei difensori di Canfora.
Da anni Fabre ha un conto aperto con Momigliano: sempre alla caccia di prove, di documenti, che subito ci ha fatto conoscere dalle pagine della stessa rivista Quaderni di storia. Ora, in leggero anticipo su Bossina, in un recente volume miscellaneo, ci ha regalato un altro, non meno acrimonioso saggio del suo zelo, nella caccia postuma al Momigliano fascista. In questo contributo Fabre si occupa di Riccardo Momigliano, padre di Arnaldo. Ce ne parla come di una sorta di piccolo duce di Caraglio: si elencano gli articoli scritti per il giornale locale, «La Sentinella delle Alpi», dedicati non all’olio di ricino, ma alla tramvia Caraglio-Cuneo, alle società operaie e ai corsi dei rurali (p. 155). Riccardo Momigliano non era uomo che amasse le divise e le parate ufficiali, non fu squadrista, non commise, che si sappia, alcun atto riprovevole, non si discostò insomma dai vizi e dalle virtù della media borghesia di un piccolo borgo di campagna della Provincia Granda. Non fu un oppositore, ma come avrebbe potuto esserlo? E quanti ve ne furono nella Caraglio del suo tempo? Era un uomo semplice, poco scaltro negli affari, la cui senilità, prima della deportazione ad Auschwitz, da dove non fece ritorno, trascorse nella trepida osservazione della formidabile carriera di un figlio salito in cattedra a ventotto anni di età. Ignora Fabre le ragioni delle sue dimissioni dal ruolo di segretario del Fascio, quando è noto il dissesto economico che travolse la famiglia negli anni Trenta. La non facile situazione economica in cui versavano figli e nipoti, nel momento in cui Arnaldo s’iscriveva all’Università a Torino, non lo interessa. Fabre si stupisce che nella stampa locale non compaiano «flani pubblicitari» (p. 152) della attività di negoziante di cereali di Riccardo e qui non rattrista il fatto che s’ignori il dissesto finanziario, ma non si abbia contezza della sobrietà, lo stile della famiglia: nel momento massimo della sua fortuna di mercante di granaglie, Amadio Momigliano mai e poi mai avrebbe fatto pubblicità a sé stesso. Fabre compara la biografia di Riccardo nientemeno che a quella del senatore Tancredi Galimberti, proprietario della «Sentinella delle Alpi» (p. 153), ignorando che la vicinanza alla famiglia Galimberti risaliva all’amicizia e ai comuni interessi mazziniani di Felice Momigliano con la moglie di Tancredi, e madre di Duccio, Alice Schanzer, donna sensibile alla letteratura e agli studi di storia risorgimentale, molto vicina agli ebrei perché lei stessa di origine ebraica9. Fabre dà per certo che in occasione di due adunate dei rurali a Roma, 31 maggio 1937 e 16 maggio 1938 Riccardo si sia messo in viaggio, cosa poco probabile, date le sue condizioni di salute. Che il nome di una persona risulti iscritta a un’adunata per Fabre significa che davvero ci sia andata (p. 158, nota 50). Le perle migliori si trovano però nel finale (pp. 165-166). Fabre trova a ridire sul fatto che nel 1933, recensendo Cecil Roth, Momigliano lodasse «la competenza» e l’«ottima» traduzione di Dante Lattes, per disconoscerne nel 1937 il ruolo politico di «guida» dell’ebraismo italiano. Dunque, secondo questa logica, uno non può lodare la competenza linguistica di un traduttore e quattro anni dopo permettersi di criticarlo per le sue posizioni politiche. Sempre a proposito della recensione a Roth, Fabre lamenta che in quella recensione Momigliano scrivesse: la tradizione ebraica «se la si considera nel suo concreto svolgimento storico fino ad oggi» è «quella che lo ha fatto [cioè Momigliano stesso] Italiano». Chiosa Fabre, con spettacolare volo di fantasia: «“Fino ad oggi” voleva dire fino al fascismo, termine che però Momigliano aveva evitato». Pensare che quel «fino ad oggi» volesse dire semplicemente «fino al momento in cui mise punto alla recensione, si alzò dalla sedia e la spedì alla rivista» è un lusso che Fabre non ci concede. Infine, si sfiora il ridicolo insinuando che dal dicembre 1936 Momigliano abbia iniziato a scrivere parole così dure contro il sionismo, perché un telegramma firmato Bocchini fu mandato a tutti i prefetti per sottolineare il pericolo di una posizione anti-italiana in Abissinia. Momigliano, come sappiamo, era su posizioni esplicitamente antisioniste già dal 1933 ai tempi della recensione a Roth e forse anche prima. E del resto l’argomento dell’antisionismo è molto debole: antisionisti erano i maggiori esponenti dell’antifascismo ebraico, dai Rosselli a Vittorio Foa. Fabre invece ritiene che Momigliano sia stato indotto a diventare antisionista il giorno in cui prefetto di Cuneo avrebbe trasmesso il telegramma al segretario del Pnf di Caraglio, Antonio Bonino: il Bonino crudele, beninteso, altra pasta d’uomo rispetto al suo predecessore e quasi omonimo Attilio Bonino, in ottimi rapporti con Riccardo Momigliano. Ad abundantiam Fabre, bontà sua, di entrambi i Bonino, il buono e il cattivo, ci inonda di notizie minuziose, che occupano la parte maggiore del suo saggio. Fabre reputa grave colpa che l’iscrizione al Pnf coincida con l’inizio ufficiale del tesseramento e si debba a eccesso di zelo o non si sa bene a quale consorteria caragliese, l’anticipazione di un mese dell’iscrizione, quando è evidente che dovendosi mangiare quella minestra, il bersaglio delle ossessioni di Fabre avrà pensato bene togliersi il pensiero approfittando del periodo estivo che ogni anno trascorreva a Caraglio con i genitori (pp.160 ss.). Fabre, da ultimo, tiene a farci sapere, pensando di suscitare in noi un brivido di raccapriccio, che nella scheda compilata il 17 settembre 1937, alla voce «sport» Momigliano abbia scritto di praticare «il ciclismo» (p. 148).
Quello che Piero Treves definiva «il conteggio più scomodo», la somma cioè riguardante i consensi elargiti, i favori ottenuti, quelle «vigliaccherie super-erogatorie», che «nessuno ti chiedeva, o cui nessuno francamente ti obbligava, ma cui soggiacevi prima per timore, poi per abitudine», è un esercizio molto praticato oggi, che presenta inconvenienti. A parte il fatto che entrare nelle difficili scelte di vita altrui è sempre impudico, tanto più trovandoci a giudicare in stato di benessere e non sul ciglio di un baratro, ritengo discutibile, sul piano del mestiere dello storico, l’uso selettivo delle fonti, di cui ci si serve per dare sfogo all’accanimento postumo. I morti, si sa, hanno la cattiva abitudine di non protestare. Giustiziera non può farsi la storia, diceva Croce, se non a rischio di divenire ingiusta. «Noi non siamo avvocati», rimproverava Chabod proprio a Momigliano al culmine della loro polemica del 1959: «Noi non siamo degli avvocati, che devono salvaguardare ad ogni costo gli interessi dei loro clienti, ricorrendo ad ogni cavillo, ad ogni artifizio, ad ogni mezzuccio pur di prevalere».