'I racconti dei hassidim': una nuova edizione per la raccolta di Martin Buber Recensione di Susanna Nirenstein
Testata: La Repubblica Data: 04 dicembre 2021 Pagina: 26 Autore: Susanna Nirenstein Titolo: «Che magia, Buber»
Riprendiamo da REPUBBLICA - Robinson di oggi, 04/12/2021 a pag. 26, con il titolo "Che magia, Buber", la recensione di Susanna Nirenstein.
Susanna Nirenstein
La copertina (Guanda ed.)
Ai massacri cosacchi degli ebrei a metà del XVII secolo, e ai fallimenti del messianesimo di Shabbatai Zevi e di Jacob Frank seguì nell'ebraismo dell'Europa orientale uno stato di annichilimento. Molti erano fuggiti, a occidente, a sud, dovunque, ma all'inizio del '700 tra chi era rimasto dominavano irrequietezza e disperazione. Anche i legami con i centri rabbinici, che si rivolgevano ai fedeli chiusi nelle loro accademie, si allentarono. Quel Dio era troppo lontano. Per tutta la Polonia si diffusero predicatori itineranti illuminati dalle dottrine cabalistiche. Se anche nel cristianesimo iniziarono a sorgere sette esasperate, flagellanti, fu dalla Polonia meridionale e nell'Ucraina che giunsero notizie di ebrei che indulgevano a improvvise manifestazioni estatiche durante la preghiera, eventi stranamente in antitesi con il controllo emotivo suggerito dalla tradizione. Fu a metà degli anni Trenta del Settecento che dalle montagne polacche del Sud scese un mistico ebreo carismatico, una sorta di santo, che fondò il hassidismo. Si chiamava Israel, era nato nel 1700 e non scrisse mai nulla. Per vivere divenne assistente di un maestro, portava i bambini a scuola, ma spesso anche nei boschi dove insegnava loro ad ascoltare il canto degli uccelli. Studiava moltissimo, viveva quasi in eremitaggio e in totale povertà con la moglie, vagava per le colline e meditava. Nella piccola città dove si era stabilito, a 36 anni si presentò infine come guaritore e esorcista, Ba'al Shem Tov (signore del Nome). Si spostava come un pazzo per la regione, distribuiva balsami e pomate, amuleti e preghiere, praticava salassi, gesti magici, dormiva due ore per notte e faceva il bagno rituale almeno una volta al giorno. Fumava la pipa e raccontava storie, aneddoti, massime, vedeva la vita come un miracolo, come un insieme di miracoli: durante le preghiere era preso da un entusiasmo incontrollabile e danzava freneticamente. Ma, quel che è più importante, insegnava il valore del sentimento nel nome di Dio, e come si possa fare esperienza del divino nelle azioni più semplici, nel mangiare, nel bere, nel sesso, e di come il Signore sia compassionevole e non chieda troppa penitenza, mortificazione, digiuno. Fervore sì, perché il mondo può essere redento dalla devozione e dalla gioia, dalla generosità, dall'abbraccio rivolto ai peccatori, dall'avvicinarsi alla presenza di Dio (la Shekinà) che si rallegra della felicità delle sue genti, delle sue danze nella preghiera, del suo canto. Il popolo dei poveri e dei semplici gli si avvicinò, e il Baal Shem Tov di fatto creò intorno a sé una grande comunità e un circolo di rabbini e predicatori, mentre il suo insegnamento si diffondeva in Galizia, in tutta la Polonia, in Lituania. In quei centri hassidici, anche dopo la sua morte nel 1760, seppure molto criticati dalle istituzioni rabbiniche, l'ebraismo trovò un nuovo impulso. Fu questo che stregò più di un secolo dopo un raffinato intellettuale viennese, socialista, sionista, quanto di più diverso dalle danze estatiche del Baal Shem Tov.
Eppure Martin Buber, filosofo e teologo (nato nel 1878 e morto a Gerusalemme nel 1965), di cui oggi escono per Guanda I racconti dei hassidim, dedicò molte delle sue energie a raccogliere le leggende, le frasi, le parole dette dal Ball Shem Tov e dai maestri che vennero dopo di lui, perché riconobbe in quel movimento un ethos che segnava un punto su tutta la tendenza emancipazionista, assimilazionista così presente nell'ebraismo europeo intorno a lui, un'energia che, insieme al sionismo, dava un'idea di quanta freschezza, vitalità, originalità, genuinità si potesse trovare nel popolo di Israele. Quelli raccolti da Buber non sono racconti epici, il contrario. Sono molto semplici e a volte ironici. Spesso circolano degli angeli, questo è vero, ma sono soprattutto le relazioni tra lo tzaddik (il giusto, il capo della comunità) e i fedeli che gli fanno luce: in un giorno di festa il Baalshem è addolorato perché la luna non si mostra e lui non può recitare tutte le benedizioni che vorrebbe, ma i suoi hassidim che non sanno nulla dei suoi pensieri, iniziano a danzare per la festività, invadono la sua stanza, lo pregano di ballare: è il fervore collettivo a squarciare le nuvole e a scoprire la luna in meravigliosa purezza. Qualcuno vede il Baal Shem Tov ogni giorno nel "tempio del paradiso". La volontà di servire Dio e di consacrargli la vita rigenera corpo e anima: il più grande dei suoi discepoli, il Magghid di Mesritsch, percepisce il Baal come un falò di luce e di fuoco. Moltissime "parabole" invitano ad amare di più il malvagio per colmare lo "squarcio" che ha prodotto nel mondo. L'ascetismo eccessivo viene rimproverato. L'orgoglio e il potere beffeggiati. Un ghiacciolo diventa una candela. Gli animali vengono abbracciati, liberati, capiti. Come da San Francesco? Può darsi.
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