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Antonio Donno
Israele/USA
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La crisi sociale dell’Iran e le prospettive politiche del Medio Oriente 03/12/2021
La crisi sociale dell’Iran e le prospettive politiche del Medio Oriente
Analisi di Antonio Donno

La protesta sociale in Iran è esplosa, ma non mette in difficoltà il regime. La repressione è e sarà durissima, come nel passato, soprattutto quella in occasione delle proteste del 2019, e la gente tornerà a seppellire i propri morti e a continuare a morire di fame e di sete. Il problema cruciale per il popolo iraniano in rivolta è l’assenza di un’opposizione organizzata. Finché ciò non avverrà, seppur in forma clandestina, i morti si aggiungeranno ai morti, l’odio verso il regime crescerà, ma nulla ne scaturirà sul piano politico. Occorre che l’organizzazione di un’opposizione vera sia prodotta da un fattore esterno, da gruppi di persone che clandestinamente si infiltrino all’interno dei settori popolari più propensi alla lotta contro il regime e lì organizzino attentati e distruzioni mirate a mettere in crisi il controllo sociale degli ayatollah. Non è facile individuare questo fattore esterno, ma solo Israele può compiere questo lavoro con efficacia, come ha fatto nel passato, ma questa volta in modo più esteso nel tessuto sociale iraniano.

La ripresa degli incontri negoziali a Vienna non lascia alcuna speranza di un esito positivo, se non per lo stesso regime di Teheran. La sospensione di mesi nel programma degli incontri è stato voluto dal potere iraniano per dare la possibilità al nuovo presidente Raisi di reimpostare il proprio governo secondo linee di rigidità diplomatica e di negazione di concessioni significative sul tema del nucleare iraniano. Tutto sta a indicare che Raisi e i suoi rifiuteranno di tornare al vecchio schema del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) del 2015 – già da quella data utilizzato astutamente dagli iraniani per incrementare lo sviluppo del proprio piano di arricchimento dell’uranio, impedendo ai rappresentanti dell’Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) di introdursi nei laboratori della fase finale del programma – negando esplicitamente che nell’eventuale testo finale del negoziato sia presente qualsivoglia forma di controllo esterno. Il che impedirebbe alla controparte americana (e di altre nazioni) di accettare un diktat di questo tipo. Intanto, in questi mesi di sospensione dei negoziati, il nuovo regime di Raisi ha rafforzato la propria presenza in Iraq, dove le elezioni non hanno prodotto alcuna rilevante novità politica, e ha rinforzato le capacità belliche dei terroristi di Hamas e delle formazioni degli Hezbollah presenti in vari punti nevralgici del Medio Oriente, anche se con nomi diversi. Insomma, i negoziati di Vienna potranno concludersi con un nulla di fatto, lasciando a Teheran campo libero sul nucleare e sulla presenza attiva dei suoi scherani delle formazioni terroristiche nella regione.

Il governo democratico di Joe Biden è in difficoltà su questo spinosissimo problema. Il nuovo governo intendeva sganciarsi dal Medio Oriente al fine di privilegiare le questioni politico-strategiche dell’Indo-Pacifico, ma la situazione della regione mediorientale e la questione dei negoziati di Vienna “costringono” Washington a non assentarsi dalle problematiche del posto. Del resto, era più che evidente che gli Stati Uniti non potessero rinunciare a fare la propria parte nell’area, dove Russia e Cina tendono a sviluppare un’intesa politico-economica con l’Iran. Biden e i suoi hanno sbagliato nel ritenere il Medio Oriente un problema secondario rispetto agli altri dello scenario internazionale. A meno che Washington non ceda alle richieste di Teheran a Vienna, l’eventuale fallimento dei negoziati non produrrà altro che un inasprimento della situazione nella regione.

Israele è solo. Per quanto gli Accordi di Abramo siano una realtà politica di somma importanza, la vittoria dell’Iran a Vienna, in qualunque modo essa si espliciti, sarà un punto di ripartenza della politica egemonica dell’Iran nella regione, con la conseguenza che i nemici di Israele riprenderanno fiato nella loro lotta contro lo Stato ebraico. Se Abu Mazen dovesse sparire dalla scena palestinese, cosa più che probabile in tempi non lontani, l’Iran entrerebbe – lo è già in parte – a gestire, di modo e di fatto, la questione palestinese, il che aggraverebbe di molto la situazione di Israele nei confronti del movimento palestinese, con esiti gravissimi per l’intero scenario mediorientale. Il terrorismo filo-iraniano di Hamas e Hezbollah si coniugherebbe, rivitalizzandolo, con il vecchio progetto dei palestinesi della West Bank di puntare finalmente ad una guerra di distruzione di Israele. A questo punto, gli Stati Uniti sarebbero costretti a ritornare sulla scena politica del Medio Oriente. Sarebbe più opportuno che ciò avvenisse prima dell’irreparabile.

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Antonio Donno

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