Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/11/2021, a pag.20 con il titolo "Cento giorni di taleban" il commento di Domenico Quirico.
Domenico Quirico
Sharbat nel ritratto di McCurry (1985) e oggi
In fondo l'Afghanistan e la sua tragedia lunga quarant'anni per noi sono stati soltanto questo: una splendida fotografia e due occhi di una bambina di cui non conoscevamo nemmeno il nome. L'estetica di una tragedia, non il suo cuore spietato e colpevole, che un grande fotografo di guerra fermò, verrebbe davvero da dire per sempre, in un campo di profughi vicino a Peshawar in Pakistan. La lunga storia degli afghani erranti per trovare pace. Era il 1985 l'Afghanistan era sceso in uno dei tanti gironi del suo inferno, la guerra contro la modernizzazione brutale, involontaria imposta a colpi di bombe e di guerra dall'Unione sovietica. Sharbat Gula guardava, la macchina fotografica, l'occidentale, ciò che gli stava intorno: intensa interrogativa, come la sua vita.
II rifugio
Dopo quarant'anni e un'altra tragedia Sharbat riappare: ancora profuga, ancora fuggiasca salvata dal paradiso spietato dei taleban di nuovo padroni di Kabul e questa volta arriva in Occidente, a Roma. In fondo anche lei attraverso quella fotografia ci appartiene, le dobbiamo un rifugio come agli altri centomila afghani che abbiamo portato via nei giorni senza gloria della ritirata da Kabul. In lei possiamo leggere come in uno specchio non solo i segni che il tempo ha lasciato su quel volto ma anche le nostre dimenticanze, i nostri compromessi, gli errori e le colpe. Come anche noi come Occidente siamo invecchiati dentro smarrendo forse la giovinezza e il vigore di ciò che eravamo. I suoi occhi come l'infinito istante di una fotografia continuano a interrogarci: che cosa avete fatto di noi in questo tempo? Sharbat ha vissuto allora, quando era bambina e oggi quando ormai è una donna, la straordinaria, terribile condizione della vittima: sospesa in un terribile presente, aggrappata alla sopravvivenza di un giorno, costretta a non avere sogni perché sottoposti alla spietata usura del disincanto. In questi anni il suo volto ha continuato a essere l'Afghanistan sulle copertine dei libri delle riviste delle mostre di reportage: la bambina afgana. McCurry ha vinto premi prestigiosi, e lei intanto passava, giorno dopo giorno anno dopo anno, attraverso le stazioni del calvario del suo Paese, la guerra con i russi, la lotta fratricida tra i mujaheddin, la vittoria dei taleban, la invasione americana, il ventennio della democrazia falsa e bugiarda. Ma era come se si fosse disumanizzata fosse diventato un simbolo astratto non richiamava neppur più l'Afghanistan ma un asettico universo di bellezza atemporale.
Tra guerra e fanatismo
Attorno a lei senza soluzione di continuità c'è stato solo guerra odio fanatismo promesse mirabolanti e mai mantenute. La sua condizione di eterna bambina simbolo e poi di donna viva era emarginazione sopraffazione assenza. A quel tempo, la fine del secolo scorso, a noi occidente che tifavamo per gli eroici mujaheddin, jihadisti ma che tenevano testa al comunismo sovietico di tutto questo non importava nulla. I burqa e i volti delle bambine erano uno straordinario gioco estetico dei reporter di guerra negli intervalli delle battaglie: l'azzurro de vestiti-prigione era così scenografico sull'aspro colore delle rocce e della terra, con i profili aguzzi degli indomabili guerrieri di Allah. E gli occhi delle bambine incastonati nella scenografia degli scialli. Una splendida copertina appunto. Nulla ci importava allora del destino di quelle bambine anche se sapevamo che il burqa non era una esotica curiosità ma uno strumento di segregazione. I mujaheddin erano "i nostri", erano alleati utilissimi: che fossero fanatici amministratori della Sharia era un particolare infondo trascurabile. Sharbat e il suo volto caravaggesco sono stati una parte di quella propaganda e di quella ipocrita narrazione. In fondo è sempre stato il destino degli afghani: servire a qualcos'altro essere lo strumento di disegni che loro non avevano scelto. Essere in fondo degli sconosciuti. Dobbiamo molte spiegazioni a Sharbat.
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