Riprendiamo dal BOLLETTINO della Comunità ebraica di Milano, novembre 2021, a pag.1, l'editoriale di Fiona Diwan.
Fiona Diwan
Caro lettore, cara lettrice,
hanno mai boicottato la Cina che rinchiude oggi tre milioni di persone, la minoranza Uigura, in veri e propri campi di concentramento e poi li uccide senza che nessuno sappia che fine facciano e senza che nessuno di loro abbia mai commesso alcun reato? Un massacro silenzioso quello degli uiguri, consumato nel silenzio del mondo. E la Turchia? A quando il boicottaggio di un paese che tiene in carcere senza processo centinaia di oppositori? Il premier Erodgan infastidito dalle dure reprimende occidentali sul caso di Osman Kavala ha pensato bene di espellere ben dieci ambasciatori in un colpo solo - Canada, Danimarca, Francia, Germania, Olanda, Norvegia, Svezia, Finlandia, Nuova Zelanda, Stati Uniti -, un gesto la cui sprezzante portata aggressiva non andrebbe sottovalutata. La lista dei Paesi meritevoli di un severo boicottaggio potrebbe essere lunghissima, iniziando dalla Russia di Putin e dal caso Navalny per finire alle decine di stati arabi in cui i diritti umani sono carta straccia o all’Afghanistan dove si decapitano ragazze ventenni colpevoli di voler giocare a pallavolo.
Perché allora viene boicottato l’unico stato ebraico al mondo? Uno stato accusato di apartheid e altre odiosità quando la realtà dice altro, e troviamo giudici musulmani che siedono alla Corte Suprema, deputati arabi in Parlamento e al governo, il Presidente della più importante banca israeliana che è un arabo e il 40 per cento di medici e infermieri che sono anch’essi arabi sia musulmani sia cristiani? A volte, i fatti sono soltanto scomode sgradevolezze, fastidiose occorrenze per i guru del politicamente corretto. Per loro, la parola apartheid suona “succosa” e irresistibile se usata contro quei reclusi che per secoli vissero ammassati nei ghetti cristiani: chiavistelli, catenacci, cancelli di morte che ancora pesano sulla coscienze e che oggi porta a quel rovesciamento simbolico tra vittime e carnefici che tanto piace alle élite intellettuali occidentali, così ansiose di scrollarsi da dosso i sensi di colpa del passato quando si parla di ebrei e Israele. L’ultimo caso in merito al boicottaggio dello stato ebraico arriva adesso, dalla Gran Bretagna, dalla scrittrice Sally Rooney, considerata autrice di grande talento e best seller, che ha chiesto che la sua ultima fatica letteraria, (il romanzo Beautiful World. Where are you) non uscisse in Israele in traduzione ebraica. Un episodio che è l’ultimo di una lunga serie. Un’altra scrittrice, Alice Walker, - la prima americana di colore a vincere il Premio Pulitzer con Il Colore viola - nel 2012 aveva fatto la stessa cosa, vietando la traduzione in ebraico dei propri libri e accusando Israele di apartheid. Il clamore del caso di Sally Rooney ha spinto la potente agente letteraria Debora Harris a pubblicare una lettera sul New York Times, settimane fa: qui non si tratta di impedire l’import-export di gelati o cemento, ha scritto la Harris, ma di cultura: e «ciò che dovrebbe fare la letteratura è raggiungere la testa e il cuore delle persone». La Harris lamenta ormai da anni il fatto che alcuni editori internazionali rifiutino le opere di grandi autori israeliani da lei rappresentati, boicottando gli eventi letterari legati a Israele e rifiutando traduzioni in ebraico. L’ironia di questo sabotaggio è che la posizione politica degli autori è del tutto irrilevante, fa notare la Harris. È l’essere israeliano che è già di per sé una colpa, a priori, dichiara. Ma prendere in mano un libro non vuol forse dire trovare sempre una porta per entrare, un varco per fuggire, un’ala per volare, una parola per capire, si chiede - e noi con lei-, la Harris?
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