Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 13/11/2021, a pag. 32, con il titolo "Ritorno a New York", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
Viaggio a New York dopo questi quasi due anni di pandemia. Una città ferita. Una città mortificata. Una città che sta rinascendo, ma ancora lontana dalla sua unica e prodigiosa libertà. Mascherine ovunque. Sguardi di ansia e sfiducia tra i passanti. Nel mio hotel preferito, gli ascensoristi caduti in disuso, che contribuivano al fascino del luogo, sono inchiodati al pian terreno e la loro unica funzione è quella di aiutare i maldestri a far scorrere la loro chiave magnetica sul pulsante del piano desiderato. E al Temple Emanu-El, la prima sinagoga liberale di New York, in questa sala immensa dove duemila persone vennero a rendere omaggio a Claude Lanzmann prima del Covid, un pubblico più sparuto ha ascoltato l’autore di The Will to See dibattere con la grande reporter di guerra, Janine di Giovanni — e, prima ancora, Henry Kissinger presentare, con il capo storico di Google, Eric Schmidt, il loro libro a quattro mani su L’era dell’intelligenza artificiale . I numeri non significano nulla, ci rassicura il rabbino Joshua Davidson: la gente ha paura; resta a casa; ma sono cinque volte più numerosi quelli che non sono, come dice il Libro, “con noi, qui, oggi” ma ci ascoltano, in diretta streaming, in tutti gli Stati Uniti e oltre. Un giudaismo Zoom? Senza una presenza reale? E, nelle notti di studio, niente più milhamtah shel Torah , (la battaglia per studiare, preservare e interpretare la Torah ndt ), intorno alla conoscenza condivisa? Questo non mi consola. Ma tutti gli amici saranno lì, d’altra parte, per scoprire il film su invito di Jérémie Robert, console generale di Francia, e Richard Plepler, l’ultimo produttore americano uscito da un romanzo di Scott Fitzgerald — non fu in Costa Azzurra che lui, in una tenera notte, e come un ultimo magnate, propose a Lisa, sua moglie, di sposarlo? E ci sarà la folla delle grandi occasioni per assistere alla nostra discussione, alla libreria Albertine, sotto l’egida dell’Octavian Report, con Jonathan Tepperman, ex caporedattore di Foreign Policy e autore di un libro, ahimè non tradotto, sul buon uso delle grandi crisi. Il “dottor” Kissinger ha 98 anni. È diventato molto piccolo. Fragile. E quando si sposta non riesce a staccare gli occhi dalle ruote di uno di quei deambulatori che hanno invaso le strade di New York e senza il quale non esce più. Ma ricorda una cena a Danzica, quindici anni fa, con un Lech Walesa ubriaco fradicio; o a Parigi, trent’anni fa, a casa di un Jean-Luc Lagardère che, ancora immortale, si divertiva a metterci contro su tutto; ricorda persino il nostro primo incontro, nel 1978, all’epoca dell’uscita americana di La barbarie dal volto umano , all’Hay-Adams Hotel di Washington, con Marty Peretz, allora proprietario del mitico New Republic , dove gli avevo fatto venire il mal di testa con le mie teorie da giovane normalista sul filosofo-re secondo Platone. E, di fronte a questa memoria totale, a questo desiderio inestinguibile di conoscenza, a questa gioia di essere ancora consultato come l’oracolo che non è mai stato veramente, gli perdoniamo tutto: la Cina, il Bangladesh, la realpolitik considerata come una delle belle arti, il Cile, le generalità che pronuncia, come un Norpois proustiano, sull’Occidente in declino, l’Oriente complicato o il fallimento globale della leadership — così come quel giorno a Baltimora in cui Christopher Hitchens ed io eravamo andati a disturbare la sua conferenza e lui non esitò a farci allontanare con la forza. Improvvisamente penso a Hitchens. Ho nostalgia delle sue magnifiche provocazioni, delle sue folli bevute e dell’indomabile energia con cui lui, l’uomo di sinistra, teneva la linea del diritto d’ingerenza, dell’interventismo umanitario e politico, e di quell’universalismo luminoso che era già la risposta allo scetticismo del wokismo nascente.
Certo che era inglese: ma non era forse, come Edgar Poe secondo Baudelaire, uno degli americani più poetici che si siano mai visti? Anche il rabbino Arthur Schneier è molto vecchio. Presiede la sinagoga di Park East, che è, tra l’altro, la congregazione di Kissinger, e non ha, come dimostra il recente conflitto con il suo giovane aggiunto, il rabbino Benjamin Goldschmidt (terminato con la pura e semplice estromissione di quest’ultimo), nessuna intenzione di farsi da parte. La stampa è piena di questa storia. Non riesco a capire se si sta godendo lo spettacolo del vecchio leone stanco, ma sempre sul trono e ancora ruggente. O se è stanca, al contrario, dell’attivismo di uno straordinario pastore che, negli ultimi cinquant’anni, un giorno abbiamo visto discutere del Pakistan con Nixon, un altro della crisi degli ostaggi con Carter, un altro ancora dei migranti con Angela Merkel, del Tibet con Xi Jinping o ricevere papa Benedetto XVI a casa sua... C’è qualche altro Paese al mondo dove una guerra di successione tra rabbini farebbe notizia? Questa è la prima vera cena di Shabbat dopo la pandemia qui. La gente, forse perché è più religiosa, è venuta in gran numero stavolta e la sala da pranzo è strapiena. I canti sono gioiosi. Il decano della congregazione chiama i nomi dei nuovi arrivati nella comunità ed è un momento toccante. La voce del rabbino Schneier, quando prende la parola, senza microfono, per dire che questo 5 novembre è il mio compleanno e, cinquant’anni dopo, per un imperscrutabile scherzo del destino, anche la notte della morte di mio padre, è di nuovo forte, imperiosa e piena di un vigore che pensavamo fosse svanito. E alla fine non mi dispiace che il caso — ma ci sono casualità in queste questioni? — mi abbia portato a concludere qui, in questa compagnia, un viaggio americano che culmina in questo stranissimo momento di raccoglimento e di comunione.
(Traduzione di Luis E. Moriones)
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