Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 11/11/2021, a pag. 33, con il titolo "Perché l’ideologia woke fallirà", l'analisi di Bret Stephens.
Bret Stephens
La storia americana è una storia di grandi proteste, generalmente di due tipi. Ci sono i movimenti che pur esprimendo un dissenso feroce partono dalla convinzione che il sistema americano sia adeguato, in ultima analisi, per realizzare le sue promesse fondamentali: uguaglianza, diritti inalienabili, ricerca della felicità, e pluribus unum , un’unione più perfetta. È questo che aveva in mente Frederick Douglass quando definiva la Costituzione un «glorioso documento di libertà». E poi ci sono i movimenti di protesta che si rivoltano contro il sistema, o perché non pensano che sia in grado di mantenere le sue promesse o perché è proprio con le promesse che non concordano. L’esperienza di quasi due secoli e mezzo è che la prima tipologia di movimenti di solito ha successo: emancipazione, suffragio universale, diritti civili, matrimonio omosessuale. Il loro scopo era far crescere il Paese (e rendere gli americani più uniti) partendo da fondamenta già esistenti. Il secondo tipo – dall’insurrezione degli Stati confederati al suprematismo bianco dell’era della segregazione, fino al nazionalismo nero degli anni 60 – fallisce sempre. Sono movimenti che vogliono distruggere tutto, dividere gli americani, rigettare e rimpiazzare le fondamenta della nostra nazione. L’ideologia/movimento di protesta che viene chiamata genericamente woke o wokeness appartiene a questa seconda categoria. La settimana scorsa ha avuto il suo primo incontro significativo con la democrazia elettorale, non solo la gara per l’elezione del governatore della Virginia ma anche un referendum sulla sostituzione del dipartimento di polizia di Minneapolis e una contesa elettorale incentrata su tematiche di ordine pubblico a Seattle. La wokeness è uscita sonoramente sconfitta, e succederà ancora. Cosa c’è di male in un movimento che, a volerlo ridurre all’osso, punta a rendere gli americani più consapevoli delle ingiustizie razziali passate e presenti? Nulla. In casi come quelli di Eric Garner, George Floyd e Ahmaud Arbery, il resto degli americani ha scoperto, come avrebbe dovuto fare da tempo, che le vite dei neri possono essere soggette alle stesse crudeltà di un secolo fa. La wokeness è diventata una corrente che sostiene che il razzismo è una caratteristica intrinseca, non una distorsione, di quasi ogni aspetto della vita americana, dalla creazione degli Stati Uniti fino a oggi, nei libri che leggiamo, nella lingua che parliamo, negli eroi che veneriamo e così via. Il problema delle tesi woke non è che siano palesemente errate: il passato dell’America è impregnato di razzismo, e come diceva Faulkner, “il passato non muore mai. Non è nemmeno passato”.
Ma è anche una tesi incompleta, distorta, ingiusta verso quelle generazioni passate che si sono impegnate per avvicinare l’America alle proprie promesse e insincera nei riguardi del Paese che la maggior parte degli americani conosce oggi. La wokeness agisce come se non fosse mai esistito il movimento per i diritti civili, e come se gli americani bianchi non siano stati una parte integrante di esso. Agisce come se sessant’anni di politiche di discriminazione positiva non ci fossero mai stati e come se la percentuale di americani neri che appartengono alle classi medie e alte non fosse in continua crescita (e concentrata nel Sud degli Stati Uniti). Agisce come se non avessimo eletto un presidente nero e non avessimo di recente seppellito un generale nero con gli onori riservati a un’icona della nazione. Agisce come se, in sempre più città, le forze dell’ordine non fossero guidate da capi della polizia neri e non fossero composte da agenti di varie origini. Agisce come se il principio della supremazia bianca fosse ancora applicato sistematicamente, ignorando che una minoranza etnica un tempo emarginata, come gli asioamericani, oggi goda di livelli di reddito più alti di quelli degli americani bianchi. Soprattutto, la wokeness pretende di sostenere che episodi come l’assassinio di George Floyd, che sono scandali nazionali, siano la norma nazionale. E non è così, nonostante le ingiustizie esistenti. La maggior parte degli americani non solo percepisce la falsità di questa tesi, ma se ne sente offesa, sempre di più. L’offesa si trasforma in danno quando si passa a parlare delle soluzioni propugnate dall’ideologia woke , e del modo in cui le propugnano. Non intendo solo iniziative come quelle che invocano l’abolizione della polizia, così drammaticamente distruttive che gli elettori ne percepiscono subito il pericolo, ma anche proposte meno eclatanti. Un esempio tipico: l’Associazione medica americana recentemente ha pubblicato la sua Guida al linguaggio, alla narrazione e ai concetti , che include raccomandazioni come la sostituzione del termine “svantaggiato” con “storicamente e intenzionalmente escluso”, di “problema sociale” con “ingiustizia sociale”, di “vulnerabile” con “oppresso”, e l’uso, al posto di espressioni come blacklist (lista nera) e blackmail (ricatto), termini che non implichino un’associazione fra la parola «nero» e «sospetto o disapprovazione». Non è una cosa stupida, è una cosa orwelliana. È un tentativo esplicito di trasformare la lingua di tutti i giorni in un atto d’accusa perpetuo, politicizzato e quasi inconsapevole nei confronti del “sistema”.
Chiunque abbia dedicato del tempo ad analizzare il modus operandi dei regimi totalitari del XX secolo può notare le similitudini. La principale differenza fra quei regimi e le istituzioni «wokificate» di oggi è l’elemento della coercizione governativa. Gli americani alla fin fine sono ancora liberi di rigettare l’etica del woke , anche se a volte questo significa dover lasciare l’istituzione in cui lavorano. È per questo che la wokeness fallirà. Per ogni tentativo di cancellare certi scrittori, ci saranno altri che li pubblicheranno. Per ogni diktat mirato a correggere la lingua sostituendo alcune parole con altre, la gente troverà modi nuovi e più sovversivi di dire la stessa cosa. La tecnologia, i capitali e le buone idee si muovono più rapidamente dell’ideologia ed è il motivo per cui queste iniziative avranno successo, più rapidamente di quanto gli scettici si immaginano. Nel lungo periodo, gli americani si sono sempre schierati dalla parte di quei movimenti di protesta che rendono il Paese più aperto, più decente, meno diviso. Il movimento che oggi viene chiamato woke non fa nulla di tutto questo. Non ha nessun futuro nella terra della libertà.
Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante