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'Il caso Mussolini', di Maurizio Serra
Recensione di Diego Gabutti
Maurizio Serra, Il caso Mussolini. Saggio di analisi biografica, Neri Pozza 2021 A guerra finita, gli alleati trionfanti, il nazifascismo nella polvere, Mussolini DUX è il principale impiccato per i piedi di Piazzale Loreto. Gli fanno compagnia gerarchi in fuga, bodyguard, ex amici socialisti di gioventù e persino la sua amante, Claretta Petacci (che oggi passa per «hitleriana», e certamente lo era, però era stato Lui, mica lei, a promulgare le leggi razziali, a entrare in guerra e ad alimentare i forni di Auschwitz). Sono tutti cattivi soggetti, Lui il peggiore. Ma presto si comincia a minimizzare. Morto, poi sepolto e dissepolto, il suo cadavere trasformato per un po’ in una sorta di Primula Nera zombie, il Duce diventa la «buonanima» delle barzellette, il «morto tra noi» di Leo Longanesi, il «buon uomo» di Indro Montanelli: un tiranno in pantofole, severo ma in fondo giusto, e soprattutto innocuo. Che male aveva mai fatto, in fondo? Mani sui fianchi, l’occhio spiritato e roteante, il molleggiar di tacchi. Era un comico, involontario ma comico: un intrattenitore, e non un despota. Agli occhi dei banalizzatori, l’uomo che ordinò ai suoi generali d’usare il gas contro donne e bambini in Etiopia, che consegnò gli ebrei italiani alle Einsatzgruppen naziste e che prese le armi, a Salò, contro la sua stessa nazione era una specie di «ciccione buontempone», come diceva Homer Simpson dei suoi compagni di bisboccia. Fu trucido abbastanza da tenere gl’italiani sull’attenti (pancia in dentro, petto in fuori) per vent’anni, da pugnalare la Francia alle spalle, da guadagnarsi un posto al sole della Shoah, da scatenare una guerra fratricida, da farci spezzare le reni dalla Grecia. Eppure – sempre agli occhi dei banalizzatori, gli stessi che si sdilinquiscono a nominare D’Annunzio, i «fascisti idealisti», Marinetti – il Duce non sembrava abbastanza trucido da cucirgli addosso la personalità d’un Gengis Khan, d’un Hitler o d’uno Stalin, benché non fosse nemmeno un santerellino. Come tutte le pop star, come Mick Jagger, come Woody Allen, come Elvis Presley e Walt Disney, anche la Buonanima aveva due facce, quella sulfurea, col fez e gli stivali, e quella solare, da Gigante Buono (per chi ricorda il vecchio Carosello) chiamato a salvarci dai Jo Condor del capitalismo, della democrazia imbelle, del «mandolinismo». Dobbiamo essergli grati, spiegano i suoi fan club, perché (pur potendo) non ci liquidava con un colpo alla nuca nei sotterranei di Palazzo Venezia. E poi, vogliamo dimenticare la bonifica delle paludi, l’architettura Novecento, i treni sempre in perfetto orario? Non lui ma i fascisti cattivi, non lui ma la Gestapo e le SS, hanno commesso le efferatezze della Repubblica sociale italiana. Mussolini DUX, che aveva sempre ragione, non era tuttavia mai al corrente di nulla. Non gli dicevano niente, come al Führer secondo David Irving, e come a Stalin secondo Luciano Canfora. Avesse saputo… ah, ci avrebbe pensato lui, il più figo degl’italiani, a fermare con un «camerati, a noi» i figli delle tenebre e gli altri nemici della patria. Questo il Mussolini della storia (e della storiografia) sub specie tabloid.
Quanto al vero Mussolini, per venire finalmente al punto, ce lo racconta Maurizio Serra (diplomatico, Accademico di Francia, Premio Goncourt 2011, biografo di D’Annunzio e Malaparte) nel suo nuovo libro, Il caso Mussolini. Saggio di analisi biografica. Uscito qualche mese fa in Francia (Le Mystère Mussoilini, Perrin) e oggi anche in Italia, Il caso Mussolini è il primo saggio biografico su «Duce-Duce» che non faccia sconti al personaggio. Mascellone, anzi più esattamente «Mandibolone», come precisa Serra già in apertura del libro, era prima di tutto un grande bugiardo: «Benito Mussolini (1883-1945) ha sempre mentito, dall’inizio alla fine; a volte senza esserne consapevole. Questa vocazione alla dissimulazione permanente non derivava da una tara caratteriale, da un’imposizione della vita politica, nemmeno da un riflesso di vecchio cospiratore. Vi traspariva un sovrano disprezzo per gli uomini, tutti intercambiabili ai suoi occhi, alleati o nemici, complici divenuti avversari o viceversa». Mentì senza esitazione, e non smise mai di recitare una parte. Sempre la stessa: quella del rivoluzionario, prima sotto la bandiera rossa del socialismo, poi sotto i gagliardetti del fascismo (un fascismo di volta in volta monarchico, conservatore, papista, antisemita, imperialista e anzi «civilizzatore», repubblicano, socialista di ritorno). Diede prova di questa sua vocazione teatrale nel corso di tutta la carriera, da quando in gioventù, nei panni del demagogo anarchico e nietzschiano, sfidò Dio a fulminarlo lì dov’era per dare prova della Sua esistenza (disgraziatamente questa prova non ci fu) a quando, nel 1936, «il capo dei corrispondenti stranieri nella capitale, dopo alcune frasi di circostanza, gli porse a sorpresa una bambola durante un incontro con la stampa internazionale: “Sappiamo che la figlia di Vostra Eccellenza si sta rimettendo da una penosa malattia e vorremmo pregarvi di farle pervenire questo dono con gli auguri dei giornalisti e delle loro famiglie”.
Preso alla sprovvista, Mussolini non riuscì a trattenere l’emozione, gli occhi immensi si velarono». Ma subito «il mattatore s’impadronì della scena: afferrò la bambola con mani tremanti, la strinse in seno, si girò verso il muro e rimase in silenzio a carezzarla per lunghi minuti. Uno dei presenti dirà: “Sembrava la Duse”». Spietato, non ebbe mai il coraggio, che ebbero gli altri dittatori del suo tempo, di mostrarsi tale. «Alcuni difensori postumi di Mussolini hanno» per esempio «sostenuto che la persecuzione antisemita vera e propria avrà luogo solamente a Salò su pressione e sotto regia tedesca. È un’asserzione doppiamente falsa. Da una parte, fino dal 1941 se non prima, una mano d’opera ebraica fu obbligata a svolgere lavori di cosiddetta difesa pubblica (consolidamento degli argini del Tevere, ampliamento di rifugi antiaerei) di modestissimo valore strategico, che dovevano essenzialmente servire a umiliare la comunità “apolide”: ne resta una documentazione fotografica inequivocabile. (…) Nell’isola di Arbe (Rab, in croato) fu impiantato dall’esercito, non dalla milizia, un campo di concentramento in cui saranno detenuti fino a ventimila persone, compresi donne, vecchi e bambini, in condizioni spaventose che disonoravano il tricolore». Era, da solo, tutto il fascismo. Intorno a lui, e nel paese da lui sequestrato, non c’era che il vuoto, e lui – un grande Nulla – nel mezzo: «Il Terzo Reich vuol dire Hitler ma altresì Goebbels, Himmler, Goering, Ribbentrop e gli altri. Lo stalinismo significa Molotov, Beria, Zdanov, Krusciov, accanto al despota georgiano. L’Occupation francese si richiama a Pétain, Laval, Darlan, Doriot, Déat e sul piano culturale, a Céline, a Drieu La Rochelle, a Brasillach. Dietro Mussolini non emerge nessuno, proprio come si era augurato lui. Farinacci, Bianchi, Muti, Bastianini, Starace e Pavolini sono stati più o meno dimenticati e nessuno di loro ha finora meritato una biografia scientifica adeguata. Grandi interessa prevalentemente gli studiosi di storia diplomatica, Bottai gli specialisti della cultura negli anni trenta, Balbo gli appassionati di volo. Si parla ancora di Ciano solo perché ha lasciato un diario d’incontestabile valore storico e perché si continua a propalare la tesi che fu ucciso per ordine del suocero». Mussolini, trasformata l’Italia nel fan club degl’hitleriani, morì com’era vissuto, sul palcoscenico, protagonista d’un brutto feuilleton. Per tutta la vita – racconta Serra, storico di stampo classico, ai cui occhi la Storia è inseparabile dalla Morale – aveva conservato «come portafortuna un ferro di cavallo raccolto anni prima, una notte d’inverno, quando non era nessuno, a… piazzale Loreto, Milano».
Diego Gabutti |
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