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La Stampa Rassegna Stampa
02.12.2002 L'intifada piega l'economia israeliana
Dall'inizio dell'Intifada il reddito pro capite è sceso del 5 per cento

Testata: La Stampa
Data: 02 dicembre 2002
Pagina: 18
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Israele soffre la guerra e la crisi del Nasdaq»
In Israele un abitante su cinque è sotto la soglia di povertà. Riportiamo due articoli sull'economia israeliana, il primo di Fiamma Nirenstein ed il secondo "Pace e frontiere aperte perchè il Medio Oriente resti un'opportunità" di Maurizio Molinari, pubblicati su La Stampa lunedì 2 dicembre 2002.
"NEGLI ultimi due anni, quelli dell'Intifada, Israele sembra essere vissuto nell'ossessione non della sola piaga della sicurezza e degli attentati terroristici, ma anche del declino della sua economia. Il 20% della popolazione vive al di sotto di quello che viene definito «il limite della povertà», 300 mila israeliani (su una popolazione di 6 milioni di persone) sono disoccupati, le sedute del governo dedicate alla discussione del budget sono terribilmente aggressive e allarmate, il pil a persona è caduto in due anni del 10%, il sindacato ha ripreso inaspettato vigore, e anche in tempo di guerra fa un uso piuttosto frequente e disinvolto di lunghi scioperi generali e del pubblico impiego che portano alla popolazione già provata dal terrorismo una serie di disagi relativi ai trasporti, alla scuola, agli uffici, all'evacuazione della spazzatura. Mitzna, il nuovo candidato a Primo Ministro della sinistra, in vista delle elezioni del 28 gennaio, ha fatto dell'economia un cavallo di battaglia, delle accuse al governo per l'uso del 20% del budget per l'esercito una formula molto popolare; Yossi Sarid, il capo del locale partito radicale Meretz, ha tenuto un discorso di tono epico proprio durante l'ultima discussione del bilancio, quella che ha portato alla caduta del governo: vi descriveva uno scolaro che, come nel libro Cuore, si mette in tasca una coscia di pollo sottratta al proprio rancio scolastico per portarla alla sua mamma affamata. Il giovane economista Eran Bartal, però, sorride alla memoria di questa uscita. Da suo punto di osservazione di direttore della rivista «Public Companies» e di commentatore economico del settimanale «Macor Rishon» dedica alla cronista un commento breve e affilato: «Capisce bene che si tratta si un allarmismo soprattutto a sfondo politico, che in tempo di allarme collettivo l'arma sociale è l'unica veramente affilata che l'opposizione possa utilizzare». Ma basta guardarsi intorno e si scorge la vetrina della più appariscente fra le strutture economiche d'Israele, il turismo completamente disastrato. Faraonici alberghi che erano stati aperti in occasione del bimillennio della nascita di Gesù e punteggiavano i percorsi dei pellegrini in Terra Santa hanno dovuto chiudere i battenti. Camerieri, cuochi, guidatori di taxi, guide turistiche, artigianato locale, ristoranti, tutti gli addetti del settore sono al disastro. E anche gli alberghi del Mar Morto, che avevano avuto uno sviluppo enorme (l'Hyatt, ad esempio, si era allargato a 600 camere, e aveva creato la Spa salutistica più grande del Medio Oriente) si sono spostati da prezzi di circa 200 dollari a notte a 200 shekel (43 dollari) per un pubblico solo locale. I turisti sono stranieri ormai solo al 13%, dal 95% nel 1995. Ristoranti chiusi, boutique abbandonate, souvenir impolverati nelle vetrine «però, ci spiega Bartal, sono una piccolissima parte della realtà economica Israeliana», che comunque mantiene una sua roccaforte, ancorché ferita: l'high tech. Il turismo è meno del 10% del pil. E quello santo dei pellegrinaggi è un turismo povero, a basso budget prestabilito. Il colpo è duro, ma non è il turista spaventato che ha ferito l'economia, non la paura dell'Intifada, o almeno non quella soltanto. «Più della guerra, quello che ci ha veramente messo in difficoltà - spiega Bartal - è la caduta del Nasdaq, che si è abbattuta su di noi più che altrove. Perché, per strano che possa apparire, questo Paesino guida il mondo in campo tecnologico. Abbiamo mandato molta gente a casa, ma l'high tech resta la nostra speranza, anzi la nostra certezza». L'alta tecnologia, infatti, rappresenta il 40% dell'economia israeliana, e anche un 40% «buono» come dicono qui, perché porta i dollari. L'iniziativa, ovvero la creatività, ne era, e tuttora ne è la caratteristica, il vero motore. Migliaia di ragazzi fra i venti e i trent'anni hanno creato compagnie che hanno poi venduto per miliardi di dollari: Checkpoint, la compagnia che ha inventato i sistemi di sicurezza da applicare al computer è oggi una compagnia a grande compartecipazione europea e americana. Nella medicina e nella farmaceutica Israele ancora guida: Teva (che ha inventato e commercializzato il Prozac e l'Acamol) è fra le prime 100 del mondo. Invece l'antica forza dell'arancia e del pompelmo israeliano, il mitico prodotto del kibbutz, il simbolo del deserto che fiorisce, non esiste più: con una quantità tanto limitata d'acqua e di terra, Israele ha preferito spostare la sua produzione alimentare in altri campi. Elite, per esempio, che ha comprato parte della Nestlè è una delle più grandi produttrici mondiali di cioccolata e caffè in polvere. Ma qui, se guardiamo un barattolo di Nescafè della Elite, vedremo subito un altro dei grandi problemi che angustiano l'economia israeliana: vi troveremo scritto non «made in Israel» ma «made in Holland», da una piccola sede acquistata dalla ditta in quel paese. Il boicottaggio arabo contro i prodotti israeliani è troppo spesso accettato come un dato di fatto dai distributori e dagli acquirenti europei. I prodotti estetici dell'Ahava, tra i migliori del mondo, spesso si presentano travestiti, e hanno abbandonato l'orgogliosa scritta Ahava from Israel. Preferiscono: «Ahava from the Dead Sea». In definitiva, tuttavia, il reddito pro capite che era in Israele di 19 mila dollari fino a prima dell'Intifada, ora si aggira sui 18 mila dollari (-5%). Il pil di 18 mila dollari pone Israele fra i 43 mercati emergenti nelle relazioni commerciali e di investimento fra i paesi dell'Ocse. Anche se le compagnie americane (il vero partner di Israele) hanno rallentato gli investimenti, tuttavia gli investimenti stranieri nel `92-2002 sono stati di 18 miliardi di dollari. Non poco su un piccolo budget come quello Israeliano, 50 miliardi in tutto. «La crisi è grave, ma non disperata. Quello che pone tanta gente sotto la linea della povertà è il fatto che in Israele esistono due tipi di cittadini - dice Bartal - quello dell'high tech e il resto. Una segretaria nell'high tech guadagna 2000 dollari al mese, la segretaria di un avvocato 1000. La prima alza il pil, la seconda è al limite della povertà». Invenzioni meravigliose seguitano a dare speranza all'economia israeliana; come la Forth Dimension fondata da Gil Schwed, un 24enne che ha consentito al mondo intero i giri virtuali in tre dimensioni sugli schermi dei computer di appartamenti, musei e altro; o come le valvole cardiache in plastica il cui brevetto è stato comprato dalla Boston Scientific dalla periferia di Gerusalemme. Negli start up di Hedera migliaia di studenti studiano e esperimentano senza sosta. Ma se questa è la speranza di Israele, il grande problema è una gestione intensamente assistenzialista del patrimonio pubblico, in un paese nato nell'ideologia russa-socialista, impegnato nella politica di immigrazione fino al collo, strangolato da una marea di sussidi sociali per tutti: malati, vecchi, religiosi, insediamenti, popolazione povera, popolazione araba, madri sole, tutti godono di aiuti altissimi. Ma con il milione di immigrati russi degli ultimi anni si è provato un tipo di aiuto produttivo, non più villaggi di sviluppi che diventano ghetti con le loro scuole e istituzioni, i loro ambulatori. Si assegna a ciascuno una somma che spesso non viene usata per comprare quattro mura, ma per affittare in zone residenziali da cui i nuovi immigrati trovano spunto per integrarsi e cercare lavoro, senza restare a carico dello Stato."
"NONOSTANTE due anni di guerra e terrorismo l'economia di Israele resta solida ed è pronta a riprendere la corsa appena tornerà la stabilità nella regione e quando ciò avverrà a giovarsene saranno anche i palestinesi, ma a patto che le frontiere siano aperte». Haim Ben Shahar è uno dei pochi economisti israeliani che tenta di individuare i sentieri di possibile crescita del Medio Oriente guardando oltre le violenze che attanagliano la regione dall'indomani dell'inizio della seconda Intifada, nel settembre del 2000. Ex presidente dell'Università di Tel Aviv, responsabile dopo gli accordi di Oslo della cooperazione economica con i palestinesi e, da oltre venti anni, alla guida del «Hammer Found» per la cooperazione economica in Medio Oriente, Ben Shahar è stato negli anni Novanta uno dei più stretti collaboratori dell'ex premier Shimon Peres nel tentativo di gettare le basi di una prosperità regionale.


Shimon Peres dopo gli accordi di pace di Oslo riteneva possibile un'integrazione economica in Medio Oriente simile a quella avvenuta fra Paesi europei. E' una prospettiva ancora valida?

«Servirà almeno una generazione e non solo per i problemi politici ma per le differenze economiche. Paesi come Egitto, Siria e Giordania hanno redditi pro capite di circa mille dollari l'anno, Israele di 15 mila dollari l'anno. Questo significa che le strutture delle economie sono molto diverse. Israele è un'economia avanzata, quelle dei Paesi arabi sono invece in via di sviluppo o sottosviluppate. Pensare ad una cooperazione o integrazione fra questi due sistemi economici significa che i Paesi arabi dovrebbero accettare la leadership israeliana se non la dominazione economica israeliana. E ciò non è realistico. Ci potranno essere forme di cooperazione in futuro, come ad esempio nelle infrastrutture, ma nulla a che vedere con il progetto di un Mercato Comune del Medio Oriente».

Da dove può ripartire lo sviluppo economico del Medio Oriente?

«Sebbene siamo in una situazione politica instabile e quindi negativa per l'economia una delle poche certezze è che i fondamentali dell'economia israeliana restano solidi e che, se le condizioni generali lo permettessero, una ripresa della crescita porterebbe sviluppo anche nei Territori palestinesi».

Perché ritiene che i fondamentali dell'economia israeliana siano ancora solidi?

«Gli ingredienti base dell'economia israeliana oggi, così come era due anni fa, sono essenzialmente due: i settori tradizionali, come l'agricoltura, e l'hi-tech. La capacità di introdurre innovazioni sul mercato nel settore dell'hi-tech ha fatto di Israele il terzo Paese del mondo, dopo Stati Uniti e Canada, per azioni quotate al Nasdaq di New York. Per quanto riguarda le esportazioni il mercato è soprattutto quello dell'Unione Europea, dove la qualità richiesta è molto alta. Dietro questi risultati c'è un'alta professionalità ed un settore imprenditoriale molto intraprendente. Tutto ciò ha reso forte l'economia».

Quali sono allora le ragioni della crisi che attanaglia in Paese?

«Stiamo soffrendo per tre ragioni che, in ordine crescente di importanza, sono: il collasso dell'hi-tech in tutto il mondo rappresentato dal crollo di valore dell'indice Nasdaq; la recessione economica negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, che ha pesantemente condizionato il volume delle esportazioni; l'Intifada palestinese iniziata nel settembre 2000, quasi in coincidenza con il calo del Nasdaq e l'inizio della recessione. La combinazione di questi tre fattori ha portato al collasso prima del settore del turismo e poi dell'edilizia. L'ultimo colpo è stata la brusca diminuzione dei consumi dovuta all'incremento degli attacchi dei kamikaze, che hanno allontanato le persone dai luoghi pubblici. Di conseguenza sono calati gli investimenti ed è iniziato a diminuire il pil. Scendiamo al ritmo dell'uno per cento l'anno. Come avviene in altri Stati occidentali, ma per ragioni non del tutto identiche. Sebbene dunque gli elementi di forza dell'economia israeliana sono ancora lì, intatti, non possono emergere, non si possono materializzare a causa della situazione macroeconomica negativa».

Se vi fosse un miglioramento quali scenari sarebbero possibili?

«Se la situazione economica mondiale migliorasse Israele se ne gioverebbe con un aumento delle esportazioni. L'industria israeliana è in grado di crescere in fretta se aumenterà la domanda. Si tratterebbe tuttavia di un impatto relativo. Se invece la regione diventasse stabile, grazie ad una soluzione pacifica con i palestinesi, questo farebbe tornare a crescere l'economia israeliana ad un ritmo del 4-5 per cento».

Perché prevede un ritmo di crescita così alto?

«Questa è oggi la capacità di crescita di Israele. Include un aumento dei consumi pro capite annuale del 2-3 per cento che, sommato ad un aumento della popolazione di 2 per cento l'anno, porta i consumi a crescere di quattro punti. L'aumento potenziale delle esportazioni varia dall'8 al 12 per cento l'anno e ciò porterebbe ad aumento degli investimenti per sostenere crescita, a cominciare dalle infrastrutture. Tutto ciò è dietro l'angolo, anche se l'assenza di pace lo fa apparire lontanissimo. Da un punto di vista economico Israele è pronta a cogliere le possibilità offerte dalla pace. Ma devono cessare le violenze. Se l'Intifada non ha dato risultati politico, per palestinesi è stata invece molto efficace nel causare danni all'economia israeliana».

Una simile prospettiva di ripresa economica a suo avviso riguarderebbe anche i territori palestinesi?

«I territori palestinesi potranno essere parte di questa nuova fase di sviluppo economico solo se i confini con Israele saranno aperti. Anche se in questo momento sembra impossibile parlare di integrazione almeno l'interazione sarà necessaria alla ripresa della crescita. Questo era uno dei pilastri dell'accordo di pace di Oslo del 1993: i palestinesi sarebbero stati messi nella condizione di diventare parte del sistema economico israeliano, offrendo manodopera, vendendo i loro prodotti, ricevendo salari più alti di quelli dentro i Territori e favorendo l'aumento degli investimenti nei Territori. A seguito dell'Intifada molti israeliani e palestinesi temono tuttavia che sarà molto difficile ricostruire la cooperazione e questo significa che, se e quando ci sarà ripresa, i palestinesi ne beneficeranno molto meno degli israeliani. I palestinesi avranno bisogno più tempo per condividere i frutti della ripresa»."
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