Afghanistan: pallavolista decapitata dai talebani Cronaca di Giordano Stabile
Testata: La Stampa Data: 21 ottobre 2021 Pagina: 21 Autore: Giordano Stabile Titolo: «Orrore nell'Afghanistan in mano ai taleban: 'La pallavolista Hakimi decapitata a Kabul'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/10/2021, a pag.21, con il titolo "Orrore nell'Afghanistan in mano ai taleban: 'La pallavolista Hakimi decapitata a Kabul' ", il commento di Giordano Stabile.
Giordano Stabile
Mahjabin Hakimi
Prima le hanno cacciate dai campi sportivi, costrette a rinchiudersi in casa. Poi hanno cominciato a cercarle una a una. Per punirle, ucciderle, decapitarle. È questo l'Afghanistan dei taleban per atlete e sportive. Il divieto di praticare sport in pubblico, decretato poche settimane dopo la presa di Kabul, è soltanto la superficie di una repressione implacabile. Il lato oscuro viene tenuto nascosto ma cominciano a emergere storie terribili. Come quella di Mahjabin Hakimi, giocatrice della nazionale junior di pallavolo. All'inizio di ottobre l'hanno scovata e le hanno mozzato la testa. Poi hanno minacciato i famigliari e intimato di non rivelare nulla. Ma alla fine qualcuno ha parlato. Sui social media sono anche apparse immagini macabre. Alla fine una delle allenatrici, sotto lo pseudonimo di Suraya Afzali, ha raccontato tutto al giornale britannico The Independent. Ha spiegato che da agosto i taleban «hanno cercato di identificare le atlete; in particolare quelle della nazionale di pallavolo, perché in passato ha gareggiato in competizioni internazionali trasmesse anche dalla televisione». Per gli studenti coranici è stato così più facile avere immagini dei volti e scatenare la caccia. La povera Hakimi giocava nel Kabul Municipality Volleyball Club, la squadra della capitale. Soltanto due delle sue compagne sono riuscite a fuggire «prima che i taleban prendessero il controllo di Kabul» lo scorso 15 agosto. Tutte le altre rischiano di fare la stessa fine. Afzali ha confermato che sono in corso perquisizioni «casa per casa». Le più a rischio sono quelle che hanno partecipato in passato a trasmissioni in tivù e hanno dato «interviste». L'uccisione di una di loro è stata confermata anche da Zahra Fayazi, per sette anni titolare nella nazionale. È riuscita a fuggire un mese fa e si è rifugiata in Gran Bretagna. Alla Bbc ha lanciato un appello perché il mondo salvi le sue compagne: «Non vogliamo che altre facciano la stessa fine», ha implorato. Zahra riesce ancora a contattare le atlete rimaste intrappolate nel Paese. «Hanno cambiato casa, si sono trasferite in altre province per sfuggire alla caccia dei taleban —ha raccontato -. Molte hanno bruciato le loro tute, l'abbigliamento sportivo, per salvare se stesse e le proprie famiglie. Sono spaventate a morte e cercano di cancellare tutto quello che ricorda lo sport». I taleban non hanno ancora proibito lo sport alle ragazze in maniera formale. Ma il vicepresidente della loro potente «Commissione culturale», Ahmadullah Wasiq, ha spiegato che «non è necessario» per le donne fare attività sportiva, in particolare in pubblico. Un semplice consiglio che nasconde una realtà molto più feroce. I militanti contattano le famiglie e ordinano di proibire alle figlie di fare sport, altrimenti «rischiano conseguenze molto serie e violenze inaspettate». Per le afghane è un salto all'indietro non di vent'anni ma di mezzo secolo. Già negli anni Settanta c'erano a Kabul squadre di pallavolo, e poi di calcio, cricket e altri sport. La nazionale di volley è stata fondata quarant'anni fa, poi sciolta dopo la prima conquista dell'Afghanistan da parte degli studenti coranici, nel 1996. Nel 2001, dopo la caduta del regime del mullah Omar, è stata subito ricostituita ma adesso le atlete sono ripiombate nell'incubo. Sono state più fortunate le calciatrici. Le nazionali sono riuscite a fuggire quasi tutte, mentre la scorsa settimana la Fifa e il governo del Qatar hanno evacuato con successo altre cento calciatrici e i loro familiari. I taleban moltiplicano le loro uscite all'estero, ieri erano a Mosca, dopo Doha e Ankara, mostrano un volto conciliante. Ma in patria è un'altra storia.
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