Scambio di ‘prigionieri’: il dilemma di Israele
Analisi di Michelle Mazel
(traduzione di Yehudit Weisz)
Gilad Shalit
La spinosa questione dello scambio di prigionieri è il grosso scoglio su cui s’incagliano i faticosi negoziati per un accordo di cessate il fuoco duraturo tra Israele e Hamas, condotti attraverso l’intermediazione dell'Egitto. Il problema è che, a ben guardare, non si tratta di uno scambio di prigionieri, bensì di un'opportunità, per l'organizzazione terroristica che ha preso il potere a Gaza nel 2007 cacciando l'Autorità Palestinese con un sanguinoso colpo di Stato, di monetizzare degli ostaggi. Perché di prigionieri Hamas non ne ha, e neppure da parte israeliana si tratta di prigionieri di guerra, ma di terroristi condannati a pesanti condanne per crimini violenti. Per molti anni, la posizione ufficiale di Israele è stata quella di rifiutare di negoziare il rilascio di un prigioniero per il fatto che ciò costituirebbe un pericoloso precedente e incoraggerebbe le organizzazioni terroristiche a raddoppiare i loro sforzi per catturare dei nuovi ostaggi. La situazione attuale è inoltre la conseguenza dell'abbandono di questo principio (già) dieci anni fa. Le circostanze erano indubbiamente eccezionali. Il soldato semplice Gilad Shalit era stato catturato nel 2006 durante un'incursione terroristica di Hamas in territorio israeliano. Durante la sua lunga, (la sua) lunghissima detenzione, non ha mai avuto il beneficio di una visita della Croce Rossa a dispetto della Convenzione di Ginevra sullo status dei prigionieri di guerra e i suoi rapitori hanno torturato i suoi genitori diffondendo con sporadica frequenza foto che lo mostrava emaciato e indebolito. Di fronte a un crescente movimento popolare, il governo israeliano alla fine, dopo cinque anni, ha ceduto. I mille e ventisette terroristi così liberati erano comunque stati i responsabili della morte di oltre cinquecento israeliani, uomini, donne e bambini. E oggi Hamas esige un numero dello stesso ordine. Detiene le spoglie di Hadar Goldin e Oren Shaul, due soldati morti sul campo durante l'operazione Margine di Protezione nel 2014. Da allora i poveri genitori hanno chiesto invano che venissero loro consegnate. Bisogna sottolineare il fatto che nella comunità internazionale non si sta alzando alcuna voce contro questo sinistro mercimonio. Inoltre, due cittadini israeliani che hanno attraversato il confine sono tenuti prigionieri senza aver mai potuto dare loro notizie o ricevere la visita della Croce Rossa. Uno appartiene alla comunità araba; l'altro che appartiene alla comunità etiope soffriva, secondo la sua famiglia, di disturbi mentali. Israele è consapevole del suo duplice dovere: recuperare le spoglie dei soldati morti per la Patria e assicurare loro una degna sepoltura; liberare due dei suoi cittadini incarcerati pur sapendo che potrebbero essere morti. Ma Israele è ben determinato a esercitare la massima fermezza sull'identità di coloro che sarà costretto a rilasciare. Se oggi il “soldato Shalit” ha potuto riprendere una vita normale, finire gli studi, trovare lavoro e sposarsi, molti dei militanti rilasciati non hanno rinunciato al terrorismo e hanno causato la morte di civili israeliani.