Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 03/10/2021, a pag.29 con il titolo 'Cara sinistra basta linciaggi', l'intervista di Anna Lombardi.
Anna Lombardi
Michael Walzer
«Le attitudini illiberali all’interno della sinistra sono sempre esistite. Quelle a cui assistiamo in questa epoca non sono affatto nuove. Ricordo un episodio accaduto nei primi anni ’70: c’era questo compagno, un bravo militante del Dsa, Democratic Socialists of America. Negli anni ’50 aveva lavorato per Communications Workers of America, uno dei sindacati più importanti del paese. Su loro richiesta aveva aiutato a formare il primo sindacato di polizia. Ebbene, quando 20 anni dopo nel Dsa si seppe, lo attaccarono duramente. I poliziotti erano "pigs", maiali: e allora era un maiale pure lui. Fu cacciato. Era una persona perbene. Non si riprese mai più. Ecco, le epurazioni sommarie di persone che hanno detto, fatto o scritto cose apparentemente "scorrette" è tragicamente molto simile». Michael Walzer, 86 anni, professore emerito di Princeton, è l’influente filosofo della politica autore di saggi come L’intellettuale militante (il Mulino) e Guerre giuste e ingiuste (Laterza). A lungo condirettore della rivista politico-culturale Dissent con cui ancora collabora, è considerato una delle figure più influenti dei liberal Usa, colui che da oltre mezzo secolo sprona la sinistra americana a rimettersi in gioco.
L’Economist ha dedicato alla cultura della "sinistra illiberale" una copertina. Anne Applebaum su The Atlantic la definisce "Nuovo Puritanesimo". E il New York Times affronta con Michelle Goldberg il tema della "cancel culture", secondo la definizione attribuita da destra, per cui è meglio epurare tutto ciò che è scomodo o può urtare la sensibilità di qualcuno... «Concordo con molti temi sollevati dal dibattito. C’è una nuova sinistra identitaria e intollerante con tendenze autoritarie proprio come un tempo le aveva quella stalinista e terzomondista. Pensano di essere originali e invece ripercorrono i passi errati della vecchia scuola. Ma devo aggiungere che ho trovato l’articolo dell’ Economist troppo astratto. Molti giudizi e pochi esempi concreti. La questione è invece più complicata di come viene espressa e più ricca di sfumature. Negarlo significa fare lo stesso errore di chi si critica».
Perché? «Intanto l’ Economist ascrive alla sinistra illiberale molte idee da me sostenute. La richiesta di uno stato sociale più ampio, un’economia più regolata. Condivido di più la definizione di Applebaum di "nuovi puritani". Persone, soprattutto giovani, che con eccesso d’entusiasmo, disegnano un mondo senza sfumature. Dove o tutto e buono o tutto è cattivo e se per un momento inciampi in qualcosa di sbagliato sei contaminato. Irredimibile. E finisci linciato dai social. Viene impressa su di te la "Lettera Scarlatta", la punizione dei puritani americani del Seicento».
Senza possibilità di redenzione, dunque? «Le sfumature sono importanti. Io, per dire, sono d’accordo con l’abbattimento delle statue del generale Lee, figura che quei monumenti non li avrebbe mai dovuti avere. Ed è giusto quel che fa la città di Richmond: costruire al suo posto un monumento dedicato alla liberazione dalla schiavitù. Non condivido invece l’idea di abbattere Thomas Jefferson come accaduto a Portland, Oregon. Troppo facile bollarlo come "possessore di schiavi". Il contesto dell’epoca non si può dimenticare. Per rendere la questione più contemporanea, le racconto una cosa ripetuta da mia moglie a proposito di certi uomini finiti sotto la mannaia del #MeToo: ‘Affinché imparino a comportarsi sarebbe stato più efficace un calcio ben assestato alla base dei pantaloni dell’ostracismo pubblico e irredimibile che li travolge ora’. Ecco, magari senza il calcio, questo vale per tante cose. Bisogna denunciare sempre. Ma poi dibattere. Ascoltare. Capire. Studiare. Contestualizzare nella cultura di un’epoca. Saper cambiare opinione. E accettare che anche gli altri possono cambiare, evolvere».
E invece? «A rendere la questione complessa è il fatto che certe richieste di maggior attenzione su questioni delicate come il razzismo, i diritti delle donne e quelli della comunità Lgbtq+, per fare un esempio, non sono sbagliati. Ci sono cose cui tutti dovremmo fare più attenzione ed è importante farle emergere. Si sbaglia però a trasformarle in dogmi oltranzisti. Perché altrimenti è egemonia, linciaggio di ogni diversità, totalitarismo. Ingabbiare il linguaggio non aiuta a risolvere i problemi. Anzi, allontana dalla ricerca di soluzioni concrete».
Come se ne esce? «Innanzitutto bisogna comprendere cosa significa "liberal" e "illiberal": nell’inglese americano ha un’accezione diversa da quello britannico. Qui ha a che fare con tolleranza e pluralismo, in Europa con l’economia. Sto giusto lavorando a un libro sul tema. Parto dal pensiero di Carlo Rosselli sul socialismo liberale per arrivare a Yuli Tamir che invece parla di liberal nazionalismo. È evidente: ormai non è più una ideologia coerente, quella parola, ha tanti, troppi significati diversi. Comunque il problema più che riguardare la società americana è interno solo a una certa sinistra, poco tollerante e molto rumorosa».
Minoranza davvero? Lo stigma sociale sembra ormai in agguato ovunque. «In tanti hanno imparato dai populisti che spingere sull’aspetto identitario in una società in trasformazione, dove si stanno perdendo radici, aiuta a fare proseliti. E a vincere. D’altronde, la vecchia sinistra autoritaria cos’altro era se non populista a suo modo? Oggi la nuova sinistra identitaria ne ricalca atteggiamento e stile. Con una triste differenza rispetto a 50 anni fa. All’oltranzismo c’era chi si opponeva facendo sentire la propria voce. Demmo vita a una rivista come Dissent anche per quello. Oggi, invece, basta un tweet sui social per scatenare contraccolpi dai risultati imprevedibili. Paralizzanti: terrorizzanti per tutti. Tecno-pietre di un nuovo sistema di lapidazione».