'Dove gli ebrei non ci sono': la storia degli ebrei in Birobidzan raccontata da Masha Gessen Recensione di Cesare Martinetti
Testata: La Stampa Data: 02 ottobre 2021 Pagina: 12 Autore: Cesare Martinetti Titolo: «Nella terra promessa da Stalin agli Ebrei non scorre latte e miele»
Riprendiamo dalla STAMPA - Tuttolibri di oggi, 02/10/2021, a pag. 12, con il titolo "Nella terra promessa da Stalin agli Ebrei non scorre latte e miele", la recensione di Cesare Martinetti.
Cesare Martinetti
La copertina (Giuntina ed.)
Un gigantesco rogo, decine di migliaia di volumi yiddish stampati su carta di scarsa qualità, bianca e di un colore non uniforme che finiscono in cenere. Non è la notissima scena di Fahrenheit 451, che sarebbe stato pubblicato poco dopo. Capitava nel 1950 a Birobidzan, Unione Sovietica e sembrava la replica drammatica dei roghi di libri nazisti di vent'anni prima. Ma avveniva nella patria del socialismo ed era stata decretata dal regime che aveva resistito all'offensiva di Hitler e partecipato alla sua sconfitta. La seconda guerra mondiale era passata da appena cinque anni e il gesto più simbolico della cinica liquidazione di una cultura avveniva nel cortile della biblioteca «Sholem Aleichem». All'inizio degli anni Cinquanta le minoranze etniche erano guardate con sospetto, la politica di russificazione avanzava in ogni settore della società sovietica, negli orfanotrofi i fratelli ebrei vennero separati per recidere i reciproci legami famigliari, i circoncisi furono divisi da quelli che non lo erano. Finiva così l'utopia di una regione autonoma per gli ebrei nel territorio dell'Urss, erede dell'impero russo, dove fino a prima della seconda guerra mondiale ne vivevano milioni. Molti di loro stavano tentando di emigrare in Occidente, altri spinti dai movimenti sionisti, cominciarono il viaggio di ritorno in Palestina. Destinando ad essi una parte di territorio alla fine degli anni Venti, il regime sovietico intendeva dare una risposta socialista e non nazionalista al problema ebraico. Una vicenda dall'esito «triste e assurdo», come racconta la giornalista russo-americana Masha Gessen nel libro Dove gli ebrei non ci sono. È un testo intenso e appassionato, saggio storico e reportage giornalistico. La dedica ai genitori («che hanno avuto il coraggio di emigrare») ne rivela il carattere di dolente storia personale. Gessen è nata a Mosca nel 1967 e nell'81 è emigrata negli Stati Uniti (a Boston) con la famiglia. Dieci anni dopo, alla caduta dell'Urss, è tornata a Mosca come giornalista, per vivere e raccontare l'ebbrezza di una società che si liberava dopo più di settant'anni di un regime evoluto dalla rivoluzione proletaria ai gulag e alla repressione. Ma nel 2013 Masha ha dovuto lasciare questa «nuova» Russia perché lei, militante LGBT, con una compagna e due figli adottivi, si sentiva minacciata dalle leggi e dalle politiche omofobe del Cremlino. Sulla parabola post-sovietica, Gessen ha pubblicato altri due libri importanti. Una biografia ricca di inediti retroscena pietroburghesi sulla carriera di Vladimir Putin, l’ex ufficiale del KGB approdato misteriosamente ai vertici dello stato nel 1999, intitolata L'uomo senza volto (edito da Bompiani nel 2012). E un ritratto della generazione illusa e disillusa degli anni Novanta, uscito da Sellerio (Il futuro è storia, 2019). Nei tre anni successivi alla rivoluzione bolscevica c'erano stati migliaia di pogrom che causarono la morte di più di duecentomila ebrei lasciando mezzo milione di senza tetto. Si decise così di assegnare agli ebrei una regione sottopopolata ai confini con la Manciuria, a 8 mila chilometri da Mosca. Non un territorio particolarmente ospitale: montagne ripide difficili da percorrere anche a cavallo, una valle in gran parte paludosa, un clima estremo, inverni rigidi da ottobre ad aprile, estati con acquazzoni torrenziali intervallati dal caldo torrido. Una zona infestata da insetti ematofagi, con una popolazione locale costituita da cosacchi inviati dallo zar nel 1860 per fortificare il confine, una piccola quota di coreani-russi che coltivavano papavero da oppio e bande di predoni cinesi dalla barba rossa, gli honghutzu. Ma i pionieri ebrei avevano coraggio e determinazione da vendere. I primi arrivarono via ferrovia, nell'aprile 1928: 504 famiglie e 150 singoli. In breve tempo furono aperte sei scuole e un giornale in lingua yiddish il «Birobidzaner shtem» (la Stella del Birobidzan), un teatro, una casa editrice, fattorie collettive. Masha Gessen racconta un'epica da pionieri di frontiera sostenuta da un'avventura culturale e politica di un manipolo di intellettuali e scrittori, difensori di quel secolare tabernacolo identitario che era lo yiddish. Ma già a metà degli anni Trenta cominciarono arresti e purghe nell'élite: il teatro chiuse e i giovani poeti yiddish non poterono più pubblicare. Dell'originario progetto Birobidzan non si parlava quasi più. E oggi? Il libro si chiude con un reportage da quella regione dove non ci sono più ebrei, dove nel museo ebraico non si fa alcun riferimento alla Shoah e negli archivi i documenti relativi agli anni delle purghe staliniane e alla persecuzione degli eroici pionieri sono tuttora inaccessibili perché «contengono informazioni riservate», come spiega un'imbarazzata bibliotecaria alla richiesta della Gessen di poterli consultare. Il libro diventa così una denuncia della «condizione post-sovietica», dove la memoria è ben selezionata e la narrazione di Stalin come una «forza della natura» è perfettamente funzionale al potere di Vladimir Putin.
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