Riprendiamo da ITALIA OGGI di oggi 29/09/2021, a pag.12 con il titolo "Facebook, da gioco a impero", il commento di Diego Gabutti.
Diego Gabutti
Sheera Frenkel e Cecilia Kang, Facebook: l'inchiesta finale, Einaudi 2021
Sterminato com'è, più popolato di Cina, Europa e India messe insieme, quasi tre miliardi d'utenti, definire Facebook un social network è riduttivo, come dare del benestante a Berlusconi o a Bill Gates. Facebook è un continente, non una semplice nazione ma un impero, con una sua complessa geografia, una vasta pluralità di lingue e di propositi, spesso in conflitto tra loro. Mentre negl'imperi materiali, estesi nello spazio e nel tempo, per connettere gli abitanti tra loro serve un treno, un telefono, un'automobile, un aereo, una mongolfiera, nell'impero digitale di Facebook e delle altre comunità virtuali non ci sono distanze spaziali e tutti sono immediatamente connessi con tutti: uno o due click del mouse e sfreccia, avanti e indré, da un capo all'altro dell'universo. Non ci sono neppure distanze temporali: il presente convive e persino coincide col passato, conservato in archivi smisurati e senza fondo, e per di più incancellabili, permanenti: cioè con l'ombra sempre incombente di tutti i click e di tutte le mosse che ciascun utente ha effettuato dal giorno dell'iscrizione in poi. Queste mosse, che tutte insieme disegnano l'identità dell'utente, l'identità politica, quella commerciale e quella sessuale, lasciano una traccia permanente dei suoi gusti, delle sue inclinaFacebook è un vero e proprio continente, non una semplice nazione ma un verto e proprio impero, con una sua complessa geografia, una vasta pluralità di lingue e di propositi, che spesso, oltretutto, sono in palese conflitto tra loro azioni e opinioni, delle sue alienazioni e dei suoi pregiudizi, ed è come se ogni utente, in cambio della cittadinanza gratuita nell'impero di Facebook, dove si fanno nuove amicizie e si rinsaldano oppure ricicciano quelle vecchie, avesse ceduto l'anima a un Mefistofele invisibile.
Autrici di «Facebook: l'inchiesta finale», Sheera Frenkel e Cecilia Kang, sono due bravissime giornaliste d'inchiesta, come lo sono spesso i gazzettieri e le gazzettiere americane (da noi ci sono i galoppini e i rifischiatori delle procure). Attraverso interviste a fonti palesi e coperte, spulciando masse di documenti, ricostruendo episodi dimenticati o prudentemente messi a tacere, evocando campagne politiche e commerciali passate attraverso le province virtuali di Facebook come venti di tempesta, illustrano la storia di un'idea da quattro soldi che ha cambiato il mondo (per il momento in peggio, ma giacché i social network sono qui per restare, non diversamente dal fuoco e dalla ruota, si spera prossimamente in meglio). All'inizio, «The Facebook» era un giocattolo degli studenti di Harvard per giudicare con un voto le studentesse (le più belle, le più disponibili, quelle da evitare). E una classica storia americana, tra Maial College e Moby Dick: dal nulla a un valore borsistico intorno ai cento miliardi di dollari. Mark Zuckerberg e i suoi amici della primissima ora, oggi tutti fuori dal business, hanno cominciato con i «like» alle ragazze e oggi si racconta che il fondatore e guru di Facebook concluda le riunioni del cerchio magico (dove si ragiona di come comportarsi con le elezioni in Francia, o a Manila, e di cosa rispondere al presidente, Donald Trump, un altro, che chiamerà all'ora di cena) alzando il pugno e gridando: «Dominio!».
Se è riduttivo definire Facebook un social network, dire che si tratta d'un mondo «virtuale», benché sia proprio questa la sua natura, è decisamente un eufemismo. Tutt'altro che virtuale o simulato, Facebook è un mondo «secondo», cresciuto intorno al primo, non meno reale e labirintico. Riflesse nello specchio di Internet, amplificate e potenziate dai gruppi che prendono vita e si organizzano al suo interno, fanno capo ai server di Facebook non soltanto tutte le culture che affollano il mondo vero, ma anche quelle che nel primo mondo sono minoritarie, quasi invisibili e (soprattutto) infrequentabili: i negazionisti della Shoah e del Covid-19, i suprematisti bianchi, i No-vax, i creazionisti. Di tanto in tanto, a dimostrazione, che le comunità cosiddette virtuali sono tutt'altro che immaginarie, le chimere di Facebook prendono d'un tratto so- stanza e, come la mattina del 6 gennaio scorso, si manifestano nel mondo reale, e danno l'assalto al Campidoglio, simili a masnade da disaster movie. Spropositata, vasta come l'immaginazione umana, della stessa materia di cui sono fatti i sogni e gl'incubi, Facebook è, a tutti gli effetti , nazione, come si diceva: con un account, possiamo esserne tutti cittadini. Una nazione sui generis, però: senza leggi, o con leggi segrete, in parte inconoscibili e in parte imperscrutabili. Leggi di cui gli utenti, e forse anche lo stesso Imperatore Zuckerberg, come pure i suoi cortigiani, non sospettano l'esistenza, e che imparano a conoscere dalle emergenze: i pedofili organizzano i loro gruppi d'affinità, gli hacker lanciano enormi quantità di merda (con rispetto parlando) nel più grande ventilatore mai concepito da mente umana, gli antisemiti fanno proseliti, idem ogni sorta di supercomplottisti, e intanto, peggio ancora, Trump vince a sorpresa le elezioni (e così altre chimere, il reality show e la tv spazzatura, di cui «The Donnie» è stato un'icona, prendono sostanza). Democratico, ebreo, Zuckerberg difende le comunità della peggior destra repubblicana e persino quelle antisemite presenti su Facebook nel nome della libertà di parola. Naturalmente difendere la libertà di parola (dunque il diritto di tutte le tribù politiche ideologiche, comprese le più inqualificabili e pericolose) di non essere bandite dall'Impero per le loro esortazioni alla violenza è anche il modo in cui Facebook rimane sul mercato sbaragliando ogni concorrenza.
C'è un account per tutti, siamo tutti benvenuti, come racconta Facebook: l'inchiesta finale. Attraverso algoritmi che non discriminano tra le opere di beneficenza e la caccia all'ebreo, Facebook profila a sangue ogni suo utente, per lo più inconsapevole. Quindi, sempre via algoritmo, ne cede agl'inserzionisti dati e identità. Ciò a fini promozionali, sia politici che commerciali (ma nell'era di Trump e dei populismi soprattutto politici). È la legge recondita di Facebooklandia, che si viene a conoscere sempre dopo uno scandalo, a cose fatte, quand'è ormai troppo tardi e non c'è più rimedio ma soltanto scuse da porgere e multe miliardarie da pagare. Cioè quando si scopre l'affaire Cambridge Analytica (87 milioni d'account passati, senza il loro consenso, da Facebook a Cambridge Analytica, che li aveva usati per scopi di propaganda politica). Oppure quando salta fuori che gli hacker russi, dilagando letteralmente su milioni di pagine Facebook, hanno intortato di fake news le primarie e le presidenziali americane (nel 2016 gli hacker hanno pompato sia Donald Trump che Bernie Sanders, i due candidati populisti, quello di destra e quello di sinistra). Inglobate anche WhatsApp e Instagram, oggi Facebook è «una frittata di app strapazzate». Personalmente non ho un account Facebook. Troppo «social» per me. Soltanto se ci fosse in giro un «asocial network» potrei iscrivermi senza arricciare il naso.