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C’era una volta il PCI
Recensione di Diego Gabutti
Piero Bernocchi e Roberto Massari, C’era una volta il PCI... 70 anni di controstoria in compendio, Massari editore 2021, pp. 192, 15,00 euro. Tra le ricadute del golpe bolscevico a San Pietroburgo ci fu la nascita dei franchising leninisti in tutto il mondo: in Italia, nel 1921, il Pc d’Italia, poi Partito comunista italiano. Sul momento, sotto il «profilo rivoluzionario», come vaneggiavano Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e gli altri sembrò un affarone (come a quel tale di cui parlava Steve McQueen nei Magnifici sette: il cowboy che si era seduto su un cactus e che, quando gli chiesero perché l’aveva fatto, spiegò che sul momento gli era sembrata una buona idea). Fu naturalmente l’inizio della catastrofe, e non perché in Italia furono i fascisti a vincere, ma perché l’Internazionale comunista vinse in Russia e perché fu da questo che derivò il trionfo del totalitarismo su tutto il pianeta, fascismo italiano in primis. C’era stata la guerra, poi la pandemia di «spagnola», che insieme generarono il tracollo della civiltà liberale, ma se la Russia avesse respinto i golpisti e mantenuto le conquiste del febbraio 1917, quando lo zarismo tracollò e fu proclamata la repubblica, in Germania non ci sarebbero stati putsch di destra e di sinistra e in Italia non ci sarebbero state né la bell’«impresa fiumana» né la Marcia su Roma.
Date le premesse, qualcosa sarebbe comunque fatalmente avvenuto, ma non Stalin, e neppure Hitler. A monte del Novecento e delle sue sventure sbatat Lenin con i suoi franchising, tra cui il Pc d’Italia. Di questo particolare concessionario bolscevico Piero Bernocchi e Roberto Massari raccontano la «controstoria» – che è poi la storia senza manipolazioni, vanterie, omissioni, infiocchettature e bellurie – nel loro C’era una volta il Pci. Controstoria d’un mondo oggi inimmaginabile: l’intera società civile (non soltanto i reduci dalle trincee) era vittima d’una spaventosa psicosi di guerra: una sindrome da stress post traumatico estesa.
Di qui il pullulare, nella generale bancarotta delle democrazie, di bande armate decise a rifare il mondo daccapo: altrettante sette apocalittiche (morte ai giudei, socialisme ou barbarie) che avevano per modello la volontà di potenza, il sindacalismo rivoluzionario, il sangue e la terra, la zuffa tra capitale e lavoro. Ci fu quello che ai tempi si diceva «un salto di qualità» e che oggi, in gergo fantascientifico snob, si dice «singolarità»: il sistema dei propositi e degli spropositi sociali si riconfigurò in un lampo. Da un giorno all’altro i partiti socialisti, che avevano dominato fino a quel momento il campo proletario modificando i rapporti di forza tra le classi grazie al suffragio universale e alla forza contrattuale dei sindacati, finirono tutti fuori corso, come monete ritirate dalla circolazione; al loro posto, un solo centro di controllo: il Comitato esecutivo della Terza internazionale con sede a Mosca, che stava alle chiese marxleniniste nazionali come la sede centrale della multinazionale McDonald’s, in Illinois, sta ai McDonald’s sparsi per il mondo: le strategie elaborate dai capi bolscevichi erano l’esatto equivalente della ricetta segreta del Big Mac o del milk shake al caramello. L’ascesa della setta internazionalista bolscevica e del suo gemello fascista mandò fuori corso, insieme ai partiti operai riformisti, il movimento socialista in ogni sua forma: un attimo dopo essersi realizzata, l’utopia s’era trasformata in distopia. Fu una metamorfosi definitiva. In Italia, da Turati e Matteotti, si passò con un sim salabim ai Demoni di Dostoevskij e al radicalismo gramsciano e bordighista.
Opera di due antistalinisti di sinistra, come lo sono stati Boris Souvarine e Victor Serge, François Fejtő e lo stesso George Orwell, C’era una volta il Pci è un racconto storico serrato, avvincente e originale. Bernocchi e Massari non fanno sconti al movimento comunista, di cui pure sono stati partecipi e di cui rimpiangono quelle che forse chiamerebbero, esagerandone l’importanza e la portata, occasioni perdute. Libro importante, che sintetizza la storia scellerata d’un secolo breve (1917-1991) eppure interminabile, C’era una volta il Pci è però forse troppo schiacciato sulle guerre interne all’universo comunista, sui torti subiti dagli avversari della byurokratiya stalinista e sulle nefandezze dei loro persecutori, quando il problema naturalmente non è il destino di Trotsky o di Bucharin ma l’impatto di questa setta apocalittica, Bucharin e Trotsky compresi, sulla società civile, sulle classi nemiche, sui kulaki, sui contadini cinesi e cubani, sulla repubblica spagnola e sull’intera Polonia spartita nel 1939 tra Unione sovietica e Terzo Reich, sull’intelligentsiya borghese, sull’Africa decolonizzata, sull’Asia e sull’America latina, su imprenditori e maestranze dei paesi conquistati, su sindacati e insegnanti e su chiunque non si sia piegato, là dove il partito ha esercitato il suo terrore illimitato, ai dogmi e alla sharia della madre di tutte le moderne confessioni fondamentaliste. Dove il partito gnostico dei rivoluzionari di professione non è andato al potere, come in Italia e nei paesi sotto l’ombrello atlantico, allora l’ossessione per il controllo dei partiti marxleninisti si è esercitata con alterne fortune sulla cultura, sulla stampa e sulla scuola, sulla magistratura, sulle tivù.
È una storia truce, di cui non si parla abbastanza. Si finge che gli orrori del Novecento si fermino a Berlino e ad Auschwitz. Si sta perdendo la memoria della carestia pilotata in Ucraina, del Gulag e dei Processi di Mosca, della Rivoluzione culturale e del Grande Balzo in avanti, di Pol Pot, dei campi di rieducazione organizzati dai franchising leninisti in tutto il mondo, nell’Albania di Enver Hoxha come nell’Avana dei Castro Brothers. Con passione, competenza e uno zinzino di nostalghia per le avventure del trotzkismo e delle opposizioni di sinistra al corso stalinista degli eventi, Bernocchi e Massari raccontano «in compendio» tutta la storia. In particolare, naturalmente, passano in rassegna l’intera parabola dei comunisti italiani da Livorno alla Bolognina, dal congresso di fondazione nel 1921 al congresso d’abrogazione nel 1991 (che vedove e orfani del Soviet supremo e delle vie nazionali al socialismo tentarono di contrastare con un grottesco rito voodoo di rifondazione). Che il Pc italiano non sia mai stato altro, carte false a parte, che la filiale locale del Pc russo è dimostrato dal fatto che i due partiti nacquero e morirono insieme: a monte la presa del Palazzo d’Inverno nel 1917, a valle il fiasco dei carri armati del KGB sulla Piazza Rossa nel 1991, prima un golpe riuscito, poi uno fallito. C’era una volta il Pci è un viaggio «controstorico» nel mondo reale, oltre le nebbie, le falsificazioni e le censure degli storici organici al verbo apocalittico.
Diego Gabutti |
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