Afghanistan: i talebani contro gli omosessuali Analisi di Pietro Del Re, Alberto Cairo
Testata: La Repubblica Data: 15 settembre 2021 Pagina: 8 Autore: Pietro Del Re - Alberto Cairo Titolo: «Il no di Mazar-i Sharif la città che rifiuta il pugno duro talebano - Un muro di pietre contro gli omosessuali»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/09/2021, a pag. 8, con il titolo "Il no di Mazar-i Sharif la città che rifiuta il pugno duro talebano", la cronaca di Pietro Del Re; con il titolo "Un muro di pietre contro gli omosessuali", il commento di Alberto Cairo.
Ecco gli articoli:
"Il no di Mazar-i Sharif la città che rifiuta il pugno duro talebano"
Pietro Del Re
Nell’afa pomeridiana, dalle cupole e da ogni cuspide della moschea blu pendono come lenzuola sporche i vessilli dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. L’aria è ferma e incandescente, e nel grande santuario del quarto califfo, sua eccellenza Alì, non c’è anima viva. Dal 13 agosto scorso, data dell’incruenta conquista talebana di Mazar-i Sharif, nessuno ne solca più a piedi nudi le levigate placche di marmo bianco che circondano ogni edificio e minareto. «Era sempre pieno di gente, soprattutto nelle giornate più calde. Le famiglie venivano a fare picnic e intorno ai suoi giardini di rose si davano appuntamento tante ragazze, appena velate», dice Samar, 28 anni, un ciuffo alla Elvis Presley e la barba curata. «Ma poi, sono arrivati loro», indicando un gruppo di talebani, appollaiati all’ombra di una parete ricoperta di antiche maioliche turchesi, silenziosi, scuri in viso, tutti armati di kalashnikov. Alla popolazione locale, rotta da secoli a ogni tipo di milizia, da Gengis Khan in poi, più che timore gli studenti coranici incutono repulsione. In provincia, lontani dai giornalisti internazionali e dalle delegazioni turche o qatarine in visita a Kabul, i talebani si sentono più liberi di imporre i loro divieti con la ferocia d’altri tempi. «Alle donne impongono il burqa, ma soprattutto impediscono loro di uscire di casa, di andare a lavorare, all’università o più semplicemente a fare compere. Si capisce da come si comportano che hanno sempre vissuto in montagna», aggiunge Samar che ancora indossa i jeans, che insegna l’inglese e che ora teme per il suo futuro perché presto in Afghanistan sarà anche vietato parlare la lingua di Shakespeare. È vero, incapaci di adattarsi alla vita di città, i talebani possono apparire impacciati. Incuranti del decoro urbano, li vedi seduti a terra, togliersi le scarpe e sciogliersi il turbante: con i lunghi capelli sporchi, sembrano spesso degli accattoni. Ci mettono un attimo, però, a riacquistare un aspetto belluino, soprattutto mentre cercano di dirigere il traffico o d’imporre l’ordine pubblico brutalizzando gli abitanti di Mazar-i Sharif. In questa, che è la quarta città dell’Afghanistan, vicina alla frontiera uzbeka e tagika, i talebani dovranno verosimilmente mostrarsi più spietati che altrove. Infatti, le donne sono da sempre più indipendenti che in altri luoghi del Paese, anche grazie alla vicinanza con le due ex repubbliche sovietiche, dove si è creduto per decenni nell’uguaglianza dei diritti di genere. «L’hanno già dimostrato la settimana scorsa, quando hanno arrestato una mia amica e l’hanno frustata in prigione», ci racconta un’infermiera che chiameremo Nadia e che incontriamo in un ospedale del centro. Come in altre città del Paese, anche a Mazar-i Sharif, poche decine di donne hanno manifestato per chiedere di non essere calpestate dal nuovo regime. «Ma se a Kabul, le donne hanno offerto fiori ai talebani, in segno di pace e per non confondere la loro lotta civica con quella militare e territoriale dei tagichi del Panshir, qui hanno cercato di strappare loro i fucili di mano. E alle proteste si sono uniti anche gli uomini. Negli ultimi vent’anni, le donne hanno acquisito una nuova forza politica nel Paese. Con l’arrivo dei talebani, è stata annientata d’un solo colpo». Nadia non è ancora scesa in piazza. Ma giura di essere pronta a farlo il giorno che le sarà impedito di lavorare. «La mia amica era una delle organizzatrici della protesta. L’hanno tenuta due giorni in galera prima di rilasciarla. L’hanno anche minacciata dicendole che se avesse raccontato delle frustate ricevute, l’avrebbero sgozzata come una capra. Ma appena l’hanno liberata, lei ha chiamato tutti quelli che conosceva per spiegare il calvario che le era stato inflitto ». A Kabul, le lezioni universitarie sono cominciate anche per le ragazze, che devono però frequentare classi solo femminili e alle quali è adesso imposto l’hijab, il velo che lascia scoperti soltanto gli occhi. A Mazar-i Sharif, invece, l’università è chiusa. «Non siamo contrari all’istruzione superiore ma dobbiamo trovare il modo migliore affinché i testi di studio non confliggano con la sharia», spiega il talebano Jamal Keel, barba a raggiera, tunica ocra e turbante blu scuro, che incontriamo nell’edificio amministrativo della facoltà di economia, in periferia della città. «Penso che l’università rimarrà chiusa ancora diversi mesi perché ci vorrà del tempo per correggere i programmi universitari in una versione che sia conforme alla legge islamica. Per esempio, dovranno essere aboliti tutti i corsi di master finanziati dagli americani». Secondo Sumayha, 23 anni, studentessa in Economia che raggiungiamo sul cellulare, si tratta di una strategia per indebolire il sistema dell’insegnamento: anzitutto affamando i professori, che da un mese non ricevono lo stipendio e che per sopravvivere saranno costretti a riciclarsi in altri mestieri; poi, con le nuove regole imposte dal ministero dell’Istruzione, scoraggiando le ragazze a proseguire negli studi per mancanza di docenti donne, che sono appena il 10% del corpo insegnante. «Ho perso ogni libertà. Mi è vietato recarmi all’università e dove lavoravo part-time. Da un mese sono costretta a rimanere a casa e non posso più neanche usare i social perché mi dicono che i talebani controllano anche quelli», aggiunge la ragazza. «Mi chiedo se davvero siamo ancora nel ventunesimo secolo».
Alberto Cairo: "Un muro di pietre contro gli omosessuali"
Alberto Cairo
G li afghani continuano a voler lasciare il Paese. Ho ricevuto e ricevo molti messaggi con richieste di aiuto. Uno mi è rimasto impresso. Tre settimane fa, quando l’aeroporto era un inferno, mi telefonò un reporter che conosco bene. Chiedeva consiglio per fare partire il suo traduttore afghano. Disse che era in grande pericolo. Domandai qualche spiegazione. Rispose che era omosessuale. Gli era stato promesso un posto su un aereo per gli Stati Uniti, ma voleva una via di fuga di riserva. Promisi di informarmi, lui che mi avrebbe richiamato. Dell’omosessualità in Afghanistan non si parla. O solo per condannare e deridere. Una volta mi chiesero se in Europa due uomini potessero veramente sposarsi e perché. «Non in tutti i paesi. Se si amano, perché no?» risposi, lasciandoli sgomenti. «E la gente che dice?». «C’è chi non approva, ma la legge lo consente. Fatti loro se sono adulti». In Afghanistan religione, legge e tradizione sono contro. Quest’ultima in maniera ambigua. In un paese con una così netta separazione tra uomini e donne, atteggiamenti affettuosi tra persone dello stesso sesso sono tollerati. Tra ragazzi succede, ammettono, subito insistendo sia una fase transitoria. Passa. E se un adulto continua a frequentare adolescenti, importante è che resti uomo, virile. Per gli effeminati non c’è perdono. L’omosessualità femminile non è neppure presa in considerazione: due donne che si danno piacere? Inconcepibile. Ogni confusione di genere, ogni infrazione di schema mette gli afghani in allarme. Avevamo alcune impiegate che preferivano vestire abiti maschili. Mentre erano ben accolte dalle colleghe, ebbi non pochi uomini nel mio ufficio a chiedere perché mai fossero state assunte. «Sono donne o cosa?». Risposi che lavoravano benissimo, capitolo chiuso. Tremenda è la morte invocata dai talebani per gli omosessuali colti in fragrante: un muro di pietre è fatto crollare loro addosso. Negli anni Novanta ricordo il caso di un condannato che sopravvisse. Perdonato perché scampato, venne portato in ospedale. Volò dal quinto piano. Il reporter irlandese non ha mai richiamato, presumo che il suo traduttore sia al sicuro. Sono contento per lui. Anche M. è all’estero, spero felice e non sola.
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