Riprendiamo da SHALOM online l'intervista di Ariela Piattelli a Maurizio Molinari dal titolo "Quando l'America decise di combattere la Jihad".
Ariela Piattelli
Maurizio Molinari
Sono passati 20 anni dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, che colpirono al cuore gli Stati Uniti. Quel martedì mattina di vent’anni fa ci fu il risveglio dell’America e delle democrazie occidentali che compresero la necessità di combattere i jihadisti, e che capirono come questa guerra sarebbe stata lunga. E ancora non è finita, come dimostrano anche le ultime drammatiche vicende in Afghanistan, perché, come spiega a Shalom in questa conversazione il direttore di Repubblica Maurizio Molinari, allora corrispondente dagli Stati Uniti per La Stampa, la guerra contro il terrorismo jihadista “non è uno sprint, ma una maratona”.
A 20 anni dall’11 settembre, i talebani riprendono Kabul, mentre l’Occidente si è ritirato dall’Afghanistan. Cosa sta succedendo? La decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dall’Afghanistan ha riconsegnato il Paese ai taleban che lo governavano nel 2001, consentendo a questo gruppo fondamentalista di incassare un successo, politico e militare, che gli consente di ricreare un santuario jihadista. I seguaci del jihadismo trarranno da tutto ciò forza, energia e risorse ponendo nuovi e seri rischi per la sicurezza in più Paesi. Ciò che colpisce è come il governo nazionale afghano e le sue forze armate si siano letteralmente dissolte in pochi giorni, senza mai combattere per impedire il ritorno dei taleban. Questa carenza di volontà di combattere contro la Jihad - dopo venti anni di governi democratici - pone interrogativi molto seri sul radicamento del fondamentalismo nella società afghana.
Guardando oggi gli Stati Uniti, cosa ha cambiato l’11 settembre del 2001? L’11 settembre è stato il giorno nel quale il terrorismo jihadista attaccò l’America. E l’America scelse di rispondere. Questi sono i due grandi fatti che sono avvenuti con l’11 settembre. Il terrorismo jihadista è un’idea di rifiuto della modernità che nasce nel 1924 in Egitto con Hasan al-Banna, il teologo che rifiuta l’abolizione del califfato da parte di Ataturk e che rigetta un Islam più moderno e riformato, e vuole tornare alle origini più sanguinose e brutali nell’oppressione degli altri popoli. Questa tesi ha ispirato tutta una serie di teologi antimoderni nel mondo dell’Islam nel ‘900, passando per il mufti di Gerusalemme che si allea con Hitler, e che vive in questa alleanza il rifiuto della modernità, e che arriva poi nella seconda metà del ‘900 a generare la jihad islamica egiziana, guidata da Ayman Al-Zawahiri. Nel 1998 Al-Zawahiri e Bin Laden si incontrano, all’indomani della vittoria della resistenza contro i sovietici in Afghanistan, e firmano un manifesto contro i “crociati” e gli ebrei, il cui intento è cacciare gli occidentali da tutte le terre dell’Islam. Un manifesto che corona il pensiero jihadista, è il patto da cui nasce la moderna al-Qaeda. La vera novità è che Bin Laden immagina che colpendo il cuore dell’America, riesca ad obbligare quest’ultima a lasciare il Medioriente con il ritiro dei suoi soldati, ma soprattutto obbliga i paesi musulmani a liberarsi della modernità occidentale. Tutto questo avviene con l’attacco fisico, militare, contro gli Stati Uniti. Questo è perché nella storia della Jihad l’attacco all’America è un momento di passaggio militare molto significativo. Ma il risultato che ottiene Bin Laden è opposto, perché l’America non fa quello che lui aveva immaginato, ovvero non si ripiega su se stessa, piangendo i suoi morti, non si ritira, portando tutti i paesi arabi e musulmani a liberarsi della modernità. Avviene il contrario, perché l’America sceglie di combattere. L’11 settembre è il giorno in cui l’America, ferita e attaccata a sorpresa, comprende che la minaccia della jihad è tale che deve assolutamente rispondere. Il momento nel quale questo avviene è quando all’indomani degli attacchi terroristici, Bush va sulle rovine di Ground Zero, e rispondendo alle richieste dei pompieri, parlando con un megafono, dice “voi non mi sentite perché siete vicini, ma ci sentiranno presto i terroristi che ci hanno attaccati”. Da quel momento l’America si unisce attorno al suo presidente, la NATO, le democrazie atlantiche, fanno quadrato attorno agli Stati Uniti, e la scelta è quella di attaccare l’Afghanistan, Bin Laden, e distruggere al-Qaeda. Ma al di là della campagna militare, ciò che conta e resta, è la scelta di combattere la jihad. Da quel momento l’America e le democrazie occidentali hanno scelto di combattere i jihadisti.
La città di New York come è uscita dal trauma? Quando io arrivai in macchina a New York, all’alba del venerdì, il Washington Bridge era coperto dalle bandiere. La prima persona che incontrai fu un portiere di uno stabile di Midtown. Mi disse “nulla sarà più come prima”. E così fu, perché lo spirito pioneristico e comunitario dell’America si è riunito attorno alle sue vittime. E le vittime non sono solo i morti di Ground Zero e del Pentagono, ma sono anche tutti gli altri feriti e colpiti dal terrorismo jihadista nel corso degli anni. New York si è sentita ferita. Le bandiere alle finestre indicavano il grande principio del “United we stand” (siamo tutti uniti), e questo senso di unione è quello che io ricordo di più.
L’11 settembre ha colpito profondamente anche gli ebrei americani. Gli attentati hanno cambiato il quotidiano delle diverse comunità? Questa è la cosa che mi colpì di più. Perché ci furono due conseguenze. La prima è l’identificazione massiccia della società newyorkese e americana con la sfida d’Israele contro il terrorismo jihadista. Questo significa che a partire dai poliziotti, le mamme, le scuole, ci fu una consapevolezza maggiore della sfida che avevano di fronte, e quindi del ruolo in cui Israele si trovava, dell’esposizione, e che cosa significava vivere costantemente di fronte alla sfida jihadista. Il secondo elemento, apparentemente in contrasto, è che non ci fu nelle comunità americane dell’epoca subito dopo gli attacchi l’idea di aumentare la sicurezza, i controlli, il personale di fronte alle sinagoghe, perché l’idea della difesa era collettiva, un’idea in cui è lo stato che difende, è l’Air Force che protegge i cieli, è la guardia nazionale che veglia sulla città di New York, e quindi paradossalmente ci fu un sentimento di maggiore vicinanza, di comunità, di fronte al rischio, con Israele, ma non un aumento delle misure di sicurezza nelle singole Sinagoghe.
Cosa rimane oggi di quella memoria? Quale è la lezione che ne hanno tratto gli americani? La lezione che hanno appreso gli americani, e che ancora oggi resta, è che quella contro il terrorismo è una lunga guerra. Non è uno sprint ma è una maratona. Inizia nel 1924 ed è destinata a continuare, perché in ultima istanza quello tra l’Occidente e i jihadisti è lo scontro all’interno dell’Islam tra modernità e anti modernità. Quindi i jihadisti saranno sconfitti solo quando all’interno dell’Islam vincerà la modernità. Si tratta di un lungo conflitto, in cui la dimensione militare è quello esterno, i jihadisti attaccano l’Occidente per dominare l’Islam. Non vogliono dominare Roma e New York, vogliono imporsi a Bagdad e Il Cairo. Uccidono i crociati e gli ebrei per dominare il loro mondo. E’ una tipologia di conflitto che prima l’Occidente non conosceva, completamente e drammaticamente nuova, che ancora oggi continua. La differenza rispetto all’11 settembre è che gli americani hanno compreso che è una lunga guerra.
Per inviare a Shalom la propria opinione, telefonare: 06/87450205, oppure cliccare sulla e-mail sottostante