Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 06/09/2021, a pag. 10, con il titolo "Caccia alle donne di Kabul: 'È la fine' ", la cronaca di Pietro Del Re.
Pietro Del Re
Kabul
Ma dove si nascondono le donne? È quasi mezzogiorno, siamo in giro da più di tre ore e non ne abbiamo vista neanche una camminare per strada, né sostare nei tanti caffè aperti negli ultimi anni, né far acquisti nei negozi di Chicken street, la via dei gioiellieri e dei mercanti di tappeti. Da tre settimane, Kabul è una città di soli maschi: malinconica, dunque, monocroma e senza sorrisi. Alle tre del pomeriggio, però, com’era già accaduto sabato, poche decine di afghane sono scese in piazza per chiedere al nuovo regime che siano rispettati i loro diritti, e anche la possibilità di lavorare e di far parte del governo che, dopo tre settimane di gestazione, i talebani stanno per annunciare. Come due giorni fa, anche ieri, la manifestazione è stata dispersa con i lacrimogeni e lo spray al peperoncino appena le donne hanno imboccato la via che porta verso il Palazzo presidenziale.
«La protesta è andata fuori controllo, e siamo stati costretti a intervenire. E poi, queste manifestanti sono troppo impazienti e troppo scalmanate », ci dice nel suo nuovo ufficio Zabizullah Mujahid, ex portavoce dei talebani appena nominato ministro della Cultura. È un uomo dal sorriso mite ma ha negli occhi come una rabbia indomita. Dietro il suo aspetto flemmatico s’intuisce che possa essere soggetto a collere brevi e virulente. «Non ci saranno donne ministro, perché lo vieta la Sharia, poiché una donna non può rivestire un ruolo di eccessivo prestigio. Ma vedrete che ce ne saranno nel governo e che non calpesteremo i loro diritti. Le donne potranno continuare a insegnare e a lavorare, perfino se sono poliziotte. Vent’anni fa, non c’erano le tante scuole e università che ci sono oggi. Tra il 1996 e il 2001 impedimmo a quasi tutte le ragazze di studiare perché non sapevamo bene come comportarci con l’istruzione femminile. Oggi, però, che di licei e di atenei ce ne sono fin troppi, non vieteremo di certo alle studentesse che intendono continuare a frequentarli. Ma dovranno farlo separatamente dai maschi, come impone la legge islamica. Inoltre, dovranno tutte indossare un vestito nero, con un niqab che coprirà loro il volto». Fa una smorfia schifata, l’attivista e imprenditrice Laila Haidani, quando le raccontiamo quanto ci ha detto il ministro. Ci riceve nella sua bella casa in periferia di Kabul, dove finisce l’agglomerato di bazar e di quartieri malconci, ai bordi di una pianura sovrastata da splendide montagne. «Sono tutte frottole», esordisce. «Con l’arrivo dei talebani noi donne abbiamo perso tutto: la speranza, la libertà e soprattutto i diritti acquisiti negli ultimi vent’anni. La caduta di Kabul è stato un uragano che ha distrutto tutto. Quello che fa più male è il tradimento dell’America, che dicendosi democratica e paladina dei diritti umani, ci ha lasciato cadere in un buco nero». Negli ultimi dieci anni Laila ha gestito un centro per tossicodipendenti da lei creato, e finanziato con i proventi di due negozi di scarpe e di un ristorante.
«Tre settimane fa, con la scusa che ero una donna e che avevo lavorato con gli americani, il che è falso, i talebani hanno chiuso tutte mie attività», aggiunge con gli occhi bagnati di pianto. I primi di agosto, Laila sarebbe potuta scappare all’estero ma ha preferito rimanere in Afghanistan per non mettere in pericolo la vita dei suoi famigliari che non erano in grado di seguirla. «Ma adesso sono costretta a tentare nuovamente la fuga per meglio combattere i talebani e per continuare ad aiutare le donne afghane che non hanno i mezzi per difendersi. La caccia alle attiviste, alle giornaliste, alle imprenditrici e alle donne che in politica hanno più osteggiato gli studenti coranici è già cominciata. Ci stanno stanando tutte, casa per casa. Se non riesco a lasciare il Paese, presto verrà il mio turno». Laila ci racconta poi di una ragazza del suo quartiere, assassinata la settimana scorsa soltanto perché indossava i jeans. «Un giovane talebano l’ha fermata mentre rientrava a casa e le ha chiesto perché non era vestita decentemente, con il corpo e il viso coperti. La ragazza, che si chiamava Zahira e che aveva solo vent’anni, ha risposto che quello era il suo stile d’abbigliamento preferito. Lui ha allora tirato fuori la pistola e le ha sparato in testa. Nessuno l’ha arrestato né inquisito per questo orrendo omicidio. Anzi, è probabile che qualche mullah si sia anche complimentato con lui per il suo coraggioso rigore». Ieri, intanto, a Firozkoh, capoluogo della provincia centrale di Ghor, un’altra donna è stata uccisa dai talebani. Si chiamava Banu Negar ed era una poliziotta.
È morta in casa, raggiunta dalla sventagliata di un kalashnikov, sotto gli occhi dei suoi parenti. Negar, che lavorava nella prigione locale, era incinta di otto mesi. I mullah hanno promesso che il caso verrà indagato, ma per paura di ritorsioni è verosimile che i testimoni si rifiuteranno di parlare. Chiediamo all’imprenditrice che cosa pensa delle donne che hanno manifestato ieri e l’altro ieri a Kabul, e venerdì scorso a Kandahar. «Sono battaglie inutili: portano i fiori ai talebani per chiedere il rispetto dei loro diritti, ma gli islamisti non sanno neanche che cosa siano i diritti delle donne. Per combatterli ci vuole altro. Bisogno gridare all’Occidente che gli studenti coranici stanno negando tutte le nostre libertà. E per poterlo fare siamo costrette a lasciare il Paese». Sulle manifestanti di questi giorni, la scrittrice Roeina Shahabi la pensa diversamente. «Stanno compiendo un gesto altamente simbolico. Qualche decina di donne contro il feroce esercito talebano che ha appena sgominato le truppe afghane sostenute dalla prima potenza militare del pianeta. Fa pensare a Davide contro Golia. E poi, è il momento di rivendicare i propri diritti. Ora o mai più. Certo, a scendere in piazza sono molto poche. Ma molte attiviste sono fuggite, e molte altre si nascondono per paura di essere arrestate ». Tra queste, grazie alla nostra giovane interprete, riusciamo a contattare Maniya, la chiameremo così, influencer locale di 22 anni e fuggiasca dal 20 agosto, cinque giorni dopo l’arrivo dei talebani in città. «Sono piombati in casa mia in otto, armati fino ai denti. Si sono comportati come i poliziotti che nei film americani perquisiscono la casa di un sospetto assassino, rovesciando ogni cosa, squarciando i cuscini del salotto, strappando le tende. Quando mio padre ha cercato di reagire, uno di loro gli ha dato un pugno nello stomaco. Sono andati via dopo mezz’ora, dicendomi: “Devi smettere immediatamente di postare messaggi sui social media altrimenti tu e la tua famiglia la pagherete molto cara”». Maniya è fuggita il giorno dopo, portandosi dietro solo uno zainetto per paura di essere pedinata. Da allora, vive nel seminterrato di un palazzo diroccato, dormendo su un vecchio materasso. L’aiutano due suoi amici, che le portano da bere e da mangiare. Ma la ragazza ha paura, perché sa bene che tra pochi mesi la temperatura scenderà sotto lo zero. «Hanno vinto loro», conclude. «È gente senza pietà. Se il mondo non ci salverà, presto distruggeranno la parte migliore dell’Afghanistan. Ci avevano già provato, senza farcela. Senza l’intervento dell’Occidente, stavolta ci riusciranno di sicuro».
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