Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 05/09/2021, a pag. 8, con il titolo " 'Portateci via da qui'. Le vite di Kabul appese a un biglietto", la cronaca di Pietro Del Re.
Pietro Del Re
Kabul
Chissà se un giorno i talebani demoliranno i cosiddetti “muri di sicurezza” edificati per proteggere dal loro tritolo ogni bersaglio sensibile, dalle ambasciate ai ministeri. Dietro questi blocchi di cemento armato alti sei metri e lunghi anche centocinquanta, che da due decenni sfigurano la città colonizzando buona parte del centro e restringendone le strade, si nascondono spesso gli edifici storici e le residenze più eleganti. Un motivo che potrebbe indurre gli studenti coranici a non intervenire su queste ciclopiche corazze, perché anche l’estetica architettonica cozza con la loro esasperata interpretazione dell’Islam. Appena tornati al potere, i nuovi padroni dell’Afghanistan hanno però eliminato i numerosi check-point che ingolfavano il traffico della capitale. C’è chi dice che l’abbiano fatto per non compromettere la loro liturgia del terrore che consiste anche nello sfrecciare per la città a bordo di pick-up carichi di miliziani con lo sguardo rapace e il dito perennemente incollato al grilletto della mitragliatrice. Infatti, impantanati nel caos di mezzogiorno intorno a piazza Malik Azghar o lungo la Darulaman road, soffocati dallo smog delle auto ferme e sotto al sole che ancora picchia a martello, incutono meno paura anche i più feroci tagliagole. In una città dove molti ormai vestono all’occidentale e dove chiunque possiede uno smart-phone, questi orchi che scendono dalle montagne, sempre armati di kalashnikov e intabarrati in abiti scuri e pesanti, sembrano ormai dei personaggi incongrui.
Dal 2001, soprattutto grazie alla presenza dei militari e degli operatori stranieri, Kabul si è modernizzata omologandosi alla maggior parte delle capitali del pianeta. I talebani faranno perciò fatica a imporre nuovamente i loro rigorosi dettami. Uno dei motivi della loro improvvisa bonomia è proprio questo: non hanno ancora i mezzi per “reprimere il vizio e promuovere la virtù”. È vero, da tre settimane chi dopo le 18.30 viene sorpreso ad ascoltare musica per la strada rischia di farsi accoppare dal primo talebano che passa. Ma dentro le case e negli appartamenti, la maggior parte degli abitanti della capitale ha una tv, e parecchi sono abbonati a Sky o a Netflix. L’altro motivo che li spinge alla moderazione è la consapevolezza che se dovessero ricominciare a calpestare con eccessivo sadismo i diritti umani, e in particolare quelli delle donne, rimarrebbero chiusi i rubinetti dei grandi donatori e delle agenzie internazionali. I talebani hanno i soldi per acquistare le loro armi, ma non per sfamare gli afghani. Alcuni anni fa, Lotfullah Najafizada, il direttore dell’informazione dell’emittente più seguita del Paese, Tolonews, ci spiegò che un ritorno al potere dei talebani era impossibile. Sulla trentina, giacca di sartoria e un master alla London School of Economics, Najafizada si diceva certo che la classe media afghana e le nuove generazioni non avrebbero accettato i loro divieti. Ieri, siamo tornati a Tolonews, e sulla sua poltrona abbiamo trovato un uomo decisamente più anziano che sgranando il rosario e sorridendoci benevolmente s’è perfino rifiutato di dirci il suo nome: «Non posso parlare di nessun argomento, ne va della sopravvivenza della nostra televisione». Ha risposto soltanto quando gli abbiamo chiesto se con il nuovo regime erano state allontanate le giornaliste dal video. «Le presentatrici del tiggì erano all’estero durante la conquista di Kabul e da allora ancora non sono rientrate in patria. Ma stiamo formando una ragazza a leggere le news. Tra qualche giorno esordirà al notiziario del mattino». Fino a pochi mesi fa, il parco Shar-e Naw era il luogo dove si poteva dimenticare la guerra, dove si davano appuntamento le coppiette d’innamorati e si sorseggiava il tè, dove uomini dalle lunghe barbe giocavano a scacchi. All’ombra dei suoi pini perfino il rumore del traffico giungeva attutito. Oggi, però, il parco è diventato il luogo degli ultimi. Dei dimenticati. Ospita un migliaio di profughi scappati da Kunduz durante i bombardamenti talebani del mese scorso, da Kandahar o da Mazar- e Sharif. Arrivati nella capitale, sono stati sistemati nel parco dal precedente governo. Senza nulla, però: né cibo, né tende, né servizi igienici. Ma questi disgraziati sono ignorati anche dal nuovo regime. Fino a due giorni fa, quando è arrivata una piccola delegazione di studenti coranici, armata come di consueto, che li ha invitati a sgomberare i luoghi. Un giovane rifugiato ci racconta che i talebani sono stati subito accerchiati dalla gente inferocita di questa malconcia tendopoli spontanea, che li ha messi in fuga.
Di sicuro torneranno, più numerosi e meglio armati. «E noi dove andremo a finire?», si chiede Gulsia, madre di due adolescenti, scappata da Kunduz davanti all’offensiva dei talebani perché temeva che gliele avrebbero sottratte. Raccolgo altre drammatiche testimonianze. Dalla ragazza alla quale un razzo ha distrutto la casa e il negozio, all’anziana che ha perso cinque figli, tutti nell’esercito regolare afghano; dalla madre con un piccolo cardiopatico a quella con un bambino aggredito da una brutta dermatite. Mentre prendo appunti, circondato da una folla di chi vuole raccontarmi la propria tragedia, cominciano a riempirmi di pezzetti di carta con su scritto numeri di cellulare e indirizzi, o fotocopie di carte d’identità, curricula o certificati d’invalidità. Chiedo all’interprete di spiegare che non posso aiutarli, se non scrivendo della miseria in cui si trovano nella speranza che qualcuno intervenga in loro favore. Non serve a nulla. Continuano ad arrivare persone che mi strattonano implorandomi di accettare il bigliettino che mi porgono. Ne ho le mani piene. Non riesco più a prendere appunti quando improvvisamente c’è chi mi fornisce una busta di plastica per infilarci tutto ciò che alla fine decido di non rifiutare. Rientro in albergo e la rovescio sul letto: ci saranno più di trecento pezzi di carta. In ognuno c’è la disperazione di una vita, ma anche la richiesta di una soluzione al male che l’affligge, e che ovviamente non sono in grado di fornire. Una delle recenti passioni degli afghani sono le palestre di bodybuilding. Sono spuntate ovunque, in ogni quartiere. Le prime nacquero quando in città venivano proiettati i film di Bruce Lee e Sylvester Stallone. Oggi, se ne contano più di trecento. «Ma se sono così tante è per reazione ai talebani. Infatti, nel 1998, in pieno regime islamista, fu vietato il sollevamento pesi, censurato il culturismo. E di conseguenza furono bruciati i manifesti dei bodybuilders che tappezzavano le nostre palestre», racconta Adam Amiri, gestore della sala Championship team. «Ma quando gli americani cacciarono i talebani, molti ragazzi vollero somigliare a quei soldati che avevano portato la libertà, e il culturismo ripartì alla grande», aggiunge. E oggi che sono tornati, gli chiediamo, come reagiranno? «Il 18 agosto, tre giorni dopo il loro insediamento a Kabul, si sono presentati in sei. In palestra non c’era nessuno. M’hanno chiesto il perché. Ho risposto “per paura”. Sono scoppiati a ridere e m’hanno detto che per il momento posso continuare la mia attività. Ma che dovevo farmi crescere la barba».
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