Afghanistan: il feroce regime dei talebani Editoriale di Maurizio Molinari
Testata: La Repubblica Data: 05 settembre 2021 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Poteri e segreti nel risiko feroce di Kabul»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 05/09/2021, a pag. 1, con il titolo "Poteri e segreti nel risiko feroce di Kabul", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Faide sanguinarie, incontri fra acerrimi nemici, rivelazioni di segreti e le avvisaglie di un inedito risiko fra superpotenze: a neanche una settimana dalla conclusione del ritiro Poteri e segreti nel risiko feroce sull'Afghanistan americano dall'Afghanistan quanto si sta sprigionando da Kabul e dintorni è un domino di novità talmente costellato di sorprese e incognite da rivaleggiare con i più avvincenti scritti di John Le Carré. Iniziamo dal tam tam sulle rivelazioni dei segreti. Riguardano gli accordi di Doha ovvero le quattro pagine dattiloscritte datate 29 febbraio 2020 sull'accordo fra talebani e amministrazione Trump che il presidente americano Joe Biden ha fatto proprie ordinando il ritiro tassativo delle truppe entro il 31 agosto 2021.
Da Doha a Washington si mormora sull’esistenza un numero imprecisato di “bigliettini scritti a mano” che, durante i lunghi negoziati, l’inviato Usa Zalmay Khalizad avrebbe redatto e sottoscritto assieme a Baradar, il capo dei talebani. Il testo ufficiale, disseminato di impegni talebani a non attaccare più gli Stati Uniti, sarebbe dunque solo il coperchio di una pentola di mini-intese segrete. Chi afferma di aver visto o letto alcuni di questi “pizzini” scritti a mano in dari - Khalizad è di origine afghana pashtun assicura che prevedevano quasi alla lettera quanto poi avvenuto: dal numero di detenuti liberati dai talebani durante l’offensiva su Kabul al “massimo di attacchi” consentiti contro le truppe Usa e Nato durante la veloce riconquista. Tali “pizzini” sarebbero stati inclusi da Khalizad e Baradar nel contenitore fisico delle intese di Doha. Verificare tali indiscrezioni è impossibile ma suggeriscono una lettura dei fatti dell’ultimo anno basata su un’intesa assai dettagliata fra Usa e talebani che può spiegare perché da quando Biden in aprile ha indicato la data ultima del ritiro la Casa Bianca ha praticamente cessato di ascoltare ogni obiezione, da parte di chiunque: dal Pentagono all’intelligence fino agli alleati. Il depositario di questi segreti è Khalizad - che ha seguito l’Afghanistan per più presidenti Usa sin dalla fine degli anni Novanta - oramai legato da una profonda intesa all’Emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani, grande alleato dei talebani ma anche custode delle intese strategiche che consentono al Pentagono di disporre ad Al Udeid della maggiore base fuori dagli Stati Uniti. Il punto è che il Qatar è un gigante economico ma un nano militare che proprio per questo ha siglato un’unica alleanza strategica: con la Turchia. Ciò consente al presidente Recep Tayyip Erdogan di essere al momento il primo e inequivocabile vincitore dei cambiamenti in atto a Kabul. Tre i motivi: ha ancora una presenza armata in Afghanistan, in attesa di firmare l’accordo con i taleban per la gestione dell’aeroporto; il Qatar ha già intese militari operative con Ankara su Libia e Siria che possono servire da modello per l’Afghanistan; Erdogan è diventato il leader straniero più popolare in Pakistan, dove i talebani sono nati, a seguito del sostegno che dato a Islamabad intervenendo alle Nazioni Unite contro New Delhi sulla rovente disputa sul Kashmir. A suggellare questa “primavera turca” c’è stata l’apertura di credito ad Ankara da parte degli Emirati Arabi Uniti che finora nel mondo arabo avevano guidato con grande determinazione il fronte anti-Turchia e anti-Qatar accusando questi due Paesi di sostenere i Fratelli Musulmani al fine di voler destabilizzare gli Stati nazionali arabi. Durante la marcia talebana su Kabul Mohammed Bin Zayed (Mbz), principe ereditario degli Emirati, si è affrettato a seppellire l’ascia di guerra con Erdogan in agosto: prima inviando ad Ankara il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Tahmoun Bin Zayed, e poi chiamando di persona al telefono il “Rais”. La conversazione fra Mbz ed Erdogan equivale ad un autentico evento spartiacque nel mondo arabo-musulmano: quando due acerrimi avversari, entrambi noti per essere spietati, si parlano significa che ogni tassello del mosaico strategico fra lo Stretto di Gibilterra e il Khyber Pass può cambiare posto. E non è tutto perché anche il potere a Kabul appare in bilico per il semplice motivo che la presenza nella capitale di almeno duemila miliziani dello Stato Islamico del Khorasan pone una seria ipoteca jihadista sulla capacità dei talebani di controllare la capitale e le sue istituzioni. La faida inter-jihadista per il controllo dell’Afghanistan è resa imprevedibile dal fatto che entrambi hanno forti legami con il Pakistan. Fonti occidentali a Washington e Bruxelles spiegano infatti che se il Pakistan è stato da un lato negli anni Novanta la culla dei talebani - come conferma il fatto che ospita due dei tre loro Consigli islamici, a Quetta e Peshawar - dall’altro nel 2014-2015 alcuni suoi ambienti militari favorirono la creazione di Isis-Khorasan, facendovi affluire alcuni fra i più violenti gruppi di talebani-pakistani. In attesa di sapere chi prevarrà a Kabul, Russia e Cina studiano le prime mosse nell’intento di trarre profitto dalla ritirata di Usa e Nato. Ma entrambe si mostrano assai prudenti. Un alto diplomatico moscovita afferma che ciò che più conta per il Cremlino oggi è che la «Russia arriva al fiume Oxus» - separazione naturale fra il Tagikistan e l’Afghanistan - ovvero: l’interesse immediato è sfruttare il ritorno dei jihadisti a Kabul per offrire il proprio scudo militare alle Repubbliche centro asiatiche, tornando ad estendere l’ombrello strategico russo sui confini meridionali dell’ex Urss. Anche a Pechino l’opportunità di includere l’Afghanistan nella nuova “Via della Seta” cede il passo al timore del contagio jihadista fra gli uiguri dello Xijnjiang e questo spiega le forti pressioni cinesi su Islamabad affinché siano i pakistani a guidare la nascita di un governo talebano capace di garantire stabilità ai confini. È uno scenario che porta Russia e Cina ad affiancarsi in queste ore de facto ai rivali di Washington nel premere su Pakistan, Qatar e Turchia per spingere i talebani il più lontano possibile dalla Jihad. Le novità sono solo all’inizio e promettono di sorprenderci.
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