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La Repubblica Rassegna Stampa
04.09.2021 Viaggio a Kabul, nel regno dei talebani
Analisi di Pietro Del Re

Testata: La Repubblica
Data: 04 settembre 2021
Pagina: 2
Autore: Pietro Del Re
Titolo: «Viaggio a Kabul in auto con i talebani»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 04/09/2021, a pag. 2, con il titolo 'Viaggio a Kabul in auto con i talebani', la cronaca di Pietro Del Re.

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Pietro Del Re

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Kabul

Barba corvina e occhi ferini, il talebano doganiere ci guarda incredulo. Indossa una camicia lunga fino al ginocchio, sulla quale porta un elegante gilet di lana rosso bordò. Col pollice continua a indicare la direzione opposta a quella dalla quale arriviamo chiedendo: «Kabul?». Sono le 7.30 del mattino, e qui c’è solo gente che fugge dall’Afghanistan. Nessuno vuole entrarvi, salvo noi. Il doganiere alza un sopracciglio, sorride e poi emette un suono che somiglia a Good luck, buona fortuna. Il nostro lento avvicinamento alla capitale afghana comincia in questo posto di confine, al di là del ponte dell’Amicizia che attraversa il fiume Amu Darya. Provenendo dall’Uzbekistan, che pure non è la Svizzera, l’Afghanistan più remoto e rurale è un cazzotto nello stomaco: ricorda l’Africa più malandata e depressa. Come questo villaggio di frontiera, desolante, che alcuni definirebbero medievale quand’è soltanto molto povero. A differenza dell’altra sponda, dove tutto è ordinatamente coltivato, a pochi chilometri dal fiume si apre una landa desertica con dune che a tratti invadono la carreggiata, senza che nessuno si dia la briga di rimuovere la sabbia. Ma presto la Toyota Corolla classe 1994 sulla quale viaggiamo comincia a inerpicarsi verso le prime montagne appuntite delle tante catene e massicci che incroceremo lungo il tragitto, con cime di varie forme e altezze, alcune ocra, altre viola, altre ancora giallo pastello. Ed ecco i villaggi di fango rappreso che spesso si confondono con le pareti su cui sembrano appesi. A difendere i più importanti, con parte dei mille miliardi spesi da Washington dal 2001, i presidenti pro-americani Hamid Karzai e Ashraf Ghani avevano fatto costruire roccaforti e guarnigioni militari. Ma sulle loro garitte e sui loro muri merlati vediamo sventolare soltanto il vessillo bianco dei talebani, spesso inastato su una canna di bambù o su un ramo storto. Negli ultimi vent’anni la strada tra Mazar-i Sharif e Kabul si poteva percorrere solo scortati militarmente per via degli agguati talebani. Oggi, sono tornate le bancarelle che vendono meloni grossi come cocomeri, pesche e fichi dolcissimi. Passato Hazrat-e-Sultan troviamo le tracce dei recenti combattimenti: il cratere di una granata talebana che ci costringe a una lunga deviazione, il minareto di una moschea scapitozzato da un razzo, qualche edificio crivellato di proiettili, due o tre grosse jeep americane con le gomme a terra e i vetri infranti. Poca roba in realtà, il che conferma che quantomeno in buona parte del settore nord-occidentale non ci sono state aspre battaglie. Veniamo fermati una prima volta a Saighanchi, da un giovanissimo talebano dall’aria truce. Ci ordina di scendere dalla macchina e ci sequestra i passaporti. Lo seguiamo in una piccola caserma, dove altri ragazzi stanno sorseggiando del tè. Appena ci vedono scattano in piedi, sconcertati di trovarsi di fronte a un occidentale. Sono in realtà poliziotti appena arruolati dai talebani per sostituire quelli che con il nuovo regime sono fuggiti nascondendo le uniformi. Gli student i coranici non sono ancora abbastanza numerosi per controllare e reprimere tutto l’Afghanistan, devono perciò reclutare forze dove possono, anche tra chi non ha ancora compiuto sedici anni, come la maggior parte degli agenti di Saighanchi. I quale portano tutti a tracollo il kalashnikov, sorta di accessorio dell’abito locale. Qui, come nella maggior parte dei villaggi e della città che attraversiamo, nessuno è vestito all’occidentale. Perfino i bambini indossano il celebre shalwar kameez, pantaloni larghi e stretti alla caviglia e camicione. Con l’arrivo dei talebani al potere, spiega l’autista Fahrad, la moda s’è fatta più conservatrice. «Indossare i jeans non è di certo vietato, ma adesso è davvero sconveniente». Fatto sta che, salvo le automobili e i fili elettrici pencolanti, in questi borghi che sono stati isolati negli ultimi due decenni tutto ha un sapore antico. Passata Robatak, per decine di chilometri, sul manto stradale si aprono grossi solchi. È l’asfalto arato in profondità da chissà quali carri armati. Improvvisamente, scompare pure l’asfalto e cominciano i cinquanta chilometri più penosi del viaggio, con buche profonde come canyon e pesanti massi in mezzo all’autostrada che si è trasformata in un tratturo e che s’arrampica fino a tremila metri. Qui, c’infiliamo nel tunnel Salang, un trafficatissimo budello lungo otto chilometri, senza luci e ulteriormente oscurato da una Turkmenistan polvere eterna e dal gas di scappamento di giganteschi tir carichi fino all’inverosimile che s’incrociano fino a sfiorarsi. Appena fuori, siamo fermati per la seconda volta, ma in un check-point di veri talebani. Uno di essi s’avvicina alla macchina e ci tende la mano. Chiede se possiamo caricare a bordo uno dei suoi uomini. Anche volendo, è difficile rifiutare. Sale dunque a bordo Rohallah, 44 anni, ovviamente con il suo kalashnikov. È un pasthun, come l’autista Fahrad, e i due cominciano a chiacchierare tra loro. Il miliziano spiega che sta andando a raggiungere i suoi che assediano la Valle del Panshir, «per tagliare la gola a quegli ingrati dei tagiki». Evito di raccontargli che poco prima che lui salisse a bordo m’era arrivato il messaggio di un vecchio amico diventato il portavoce di Ahmad Massud, figlio e continuatore dell’opera del leggendario comandante Ahmad Shah Massud, il leone del Panshir. Il messaggio diceva che, negli ultimi tre giorni, la resistenza tagika ha fatto fuori trecento talebani. Tre ore dopo, prima di scendere dalla macchina, Rohallah, che va a combattere senza uno zaino, una coperta e neanche una borraccia, cerca di abbracciarci stringendoci con forza le mani. Fahrad, che detesta gli studenti coranici, commenta laconico: «Ha la testa bacata come tutti i talebani». Quando arriviamo finalmente a Guldara, nel centro della piazza centrale, un gruppo di miliziani armato fino ai denti sta mimando una sorta di parata militare. Scendo dall’auto per fotografarli e si mettono in posa, sorridono, danno il cinque, ripetono ossessivamente: «We are your friends », siamo tuoi amici. Un talebano più anziano, col viso da mastino, mi prende per mano e mi trascina verso il cortile di un grande edificio. Cerco di liberarmi, ma ha mani d’acciaio. All’interno, in posa marziale, ci saranno un centinaio di talebani. Alcuni, con una sorta di casacca bianca, ricordano i cacciatori alpini. «È il nuovo esercito dell’Emirato islamico dell’Afghanistan », sentenzia l’anziano. «Siamo qui per festeggiare la conquista del nostro Paese». Anche loro sorridono e corrono a stringerci la mano. Ma si sono davvero rabboniti i talebani? Gli stessi che ammazzavano frustando le persone con le catene di bicicletta e che lapidavano le donne? È più verosimile che stiano provando l’estasi della vittoria. Bisogna aspettare i postumi di questa sbornia di conquista. Anche perché nelle centinaia di chilometri percorsi dal confine uzbeko abbiamo incrociato solo poche donne: tutte emarginate, mendicanti sul ciglio della strada, sepolte sotto il burqa. Dopo undici ore, siamo quasi a Kabul. Il traffico, le cuspidi dei minareti e le prime baracche della periferia della capitale ci appaiono come un miraggio.

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