La storia di Zakia, dall'Afghanistan a Tokio Commento di Giulia Zonca
Testata: La Stampa Data: 03 settembre 2021 Pagina: 36 Autore: Giulia Zonca Titolo: «Storia di Zakia, fuggita da Herat sul tatami porta la bandiera Afghana»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/09/2021, a pag.36, con il titolo "Storia di Zakia, fuggita da Herat sul tatami porta la bandiera Afghana" il commento di Giulia Zonca.
Giulia Zonca
Zakia Khudadadi
Difficile rappresentare un Paese quando non è più il tuo. Zakia Khudadadi è arrivata in Giappone da afghana e partirà da rifugiata, ha portato alle Paralimpiadi una nazione che non c'è: sventolerà una bandiera che non è più la sua alla cerimonia di chiusura e poi cambierà passaporto. La seconda donna dell'Afghanistan a gareggiare in questa manifestazione, la prima dal 2004 e l'unica nel taekwondo. Ispirata da Rohullah Nikpai, bronzo, nel suo stesso sport nel 2008 e nel 2012, il solo medagliato alle Olimpiadi che condivide la sua nazionalità. O condivideva. Il 17 agosto Khudadadi era certa del suo passato e sicura dei propri diritti. Due giorni dopo la presa di Kabul, con i talebani ormai tornati a limitare la libertà, ha girato un video in cui chiedeva di poter gareggiare ai Giochi: «Non voglio che la mia battaglia sia vana e non porti risultati». Coraggiosa, difendeva la qualificazione ottenuta con fatica e ostinazione. Lei, nata senza un braccio nella provincia di Herat, ha scelto una forma di lotta per emergere, per crescere, per dimostrare di avere forza. Da donna, da disabile. E all'improvviso si è ritrovata «chiusa in casa». In 48 ore i talebani, che poi avrebbero garantito molti diritti in proclami a cui è impossibile credere, avevano già bandito gli atleti dalle Paralimpiadi. In Giappone è arrivata la comunicazione secca: «L'Afghanistan non partecipa» ed è partita la rete per aiutare i due ragazzi che avrebbero dovuto esserci. Il 28 agosto Zakia Khudadadi e lo sprinter Hossain Rasouli sono saliti su areo, aiutati dalle loro federazioni che si sono messe in contatto con le associazioni umanitarie. Alla ragazza del taekwondo è stato detto di arrivare con un velo nero e poi cambiarlo e sventolarne uno bianco non appena superato il primo sbarramento. Ieri, nel giorno in cui avrebbe voluto combattere per una medaglia, ha potuto solo resistere. Lo fa da giorni. È entrata dietro il cartello con la sigla dell'Afghanistan, ha perso con tutto l'onore che poteva e non ha mai sorriso. Non ha mai parlato. Come il suo collega, centometrista dirottato sul salto in lungo perché arrivato in ritardo per la sua specialità, non si allena da settimane. Uscita stravolta da un Afghanistan risucchiato dal tempo, si è fermata a Parigi, è ripartita per Tokyo, ha fatto la quarantena, ha avuto accesso alla palestra, è salita sul tatami, ha sfidato due avversarie e po i è stata battuta e ha lasciato il Makuhari Messe Hall del quartiere Chiba consapevole di aver fatto tutto il possibile per essere all'altezza del momento e infinitamente triste. L'Australia le ha garantito un visto provvisorio, lei ancora non è pronta a decidere il suo futuro. Ci può pensare fino a domenica, cerimonia di chiusura dei Giochi e di tutto quello che conosce.
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