Riprendiamo dalla REPUBBLICA - Genova di oggi, 03/09/2021, a pag. 5, con il titolo "Akbari: 'Basta porti chiusi i talebani non sono cambiati' ", l'intervista di Erica Manna.
Enaiatollah Akbari, la copertina del libro, Fabio Geda
Quando ha visto l'immagine di quelle madri che affidavano i neonati nelle braccia dei soldati americani, è stato come rivedere sé stesso. «È quello che ha dovuto fare mia mamma: abbandonarmi in Pakistan, per amore: perché sapeva che nel nostro Paese non c'era futuro. Sta accadendo ancora: solo che l'Occidente in questi anni ci ha illuso di poterlo sognare, il futuro. E adesso ci consegna a un regime che ci obbliga a guardare a un passato di millequattrocento anni fa. È questo che fa più male: perderemo una intera generazione di ventenni che hanno studiato, ma non hanno avuto tempo di mettere questa istruzione a frutto». Enaiatollah Akbari, protagonista del best seller mondiale "Nel mare ci sono i coccodrilli" di Fabio Geda che raccontava la sua fuga dall'Afghanistan attraverso sei Paesi, dieci anni dopo è in libreria con "Storia di un figlio. Andata e ritorno" (Baldini e Castoldi). La sua vita oggi, dopo quel viaggio intrapreso da bambino che ha aperto gli occhi sui minori migranti di cui ancora si sapeva poco, è a Torino, insieme a sua moglie: una laurea in Scienze internazionali, un lavoro con l'Università nel settore delle biotecnologie. Però il pensiero fisso è casa sua, in Afghanistan. «Tengo la televisione sempre accesa, Bbc, Al Jazeera. E sto al telefono, per ore: i miei parenti sono lì, tutta la famiglia di mia moglie anche. Purtroppo la situazione è ben diversa da quella che i talebani vogliono mostrare: a Kabul regna una sicurezza dominata dal terrore, le donne vivono come agli arresti domiciliari. Temo che entro l'undici settembre anche il Panshir cadrà: è una resistenza solo simbolica». Oggi alle 19 Akbari sarà ospite al Suq di Genova, con Goffredo Fofi, per parlare di diritti e migrazioni.
Lei si aspettava un simile disastro nel ritiro americano? «Era annunciato: fin dagli accordi di Doha le piccole città hanno iniziato a cadere, i talebani si armavano nelle caserme dei militari afghani. E quando gli Stati Uniti hanno liberati diecimila talebani dalle carceri, dove pensiamo che siano andati? Ovviamente a combattere».
Quali notizie le arrivano dai suoi parenti rimasti in Afghanistan? «A Kabul è il caos totale, mascherato da una sicurezza dominata dalla paura: c'erano settecento giornalisti, ne sono rimasti appena cento. Penso poi ai tanti influencer che avevano un peso nella società, giovani che facevano da ponte con l'Occidente grazie alle tecnologie: in queste settimane sono spariti. E i pochi rimasti girano in macchina con i talebani, sotto minaccia. Collaboravo con una ragazza, era il nostro tramite dall'Italia per far arrivare i fondi per costruire una diga: è scomparsa, e ho molta paura per lei. Il punto è che in ogni città, in ogni zona, la situazione cambia: la Sharia viene interpretata dai comandanti in modo diverso, e applicata con diversi criteri. In un villaggio della provincia di Ghazni hanno assassinato il preside di una scuola femminile».
II portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid ha usato toni concitanti: sono davvero diversi da vent'anni fa? «Sono diventati più astuti, per come usano i mezzi di comunicazione. Ma l'odio è intatto: non rispettano le donne, le minoranze etniche e religiose. Hanno la stessa sete di potere».
Quale può essere, ora, il ruolo dell'Occidente? «Servono immediati corridoi umanitari: la gente lì è in pericolo di vita e ogni secondo che passa è troppo tardi. Il rischio, poi, è di ripetere l'errore dell'89: i flussi migratori si dirigevano in Pakistan, dove si era creato un enorme campo profughi, senza diritti. Molti talebani di oggi erano i bambini di quei campi, reclutati per combattere. Ma soprattutto, dopo lo sbaglio del ritiro non deve accadere un altro sbaglio con i migranti: basta porti chiusi. La gente non è matta, per salvarsi fa di tutto: si aggrappa alle ali di un aereo, attraversa il deserto, i fili spinati, il mare. Vorrei che il mio libro vorrei fosse una specie di finestra per guardare il nostro mondo».
Lei un giorno tornerà in Afghanistan? «È il mio sogno. Vorrei entrare al Ministero dell'Istruzione. Far diventare le scuole competitive, rendere lo studio obbligatorio: solo questo ci può salvare”».
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