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La Stampa Rassegna Stampa
25.06.2002 Coloni
Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 25 giugno 2002
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Coloni»
HEBRON IN fondo, a Kiriat Arba, sopra Hebron, una delle cittadine più dure nei Territori, non dispiace l'indagine di «Pace Adesso», il più antico movimento pacifista israeliano, il nemico di sempre. «Lo vede - dice Shlomo, grande barba sulla camicia bianca - non siamo poi quel diavolo che si ama immaginare». C'è qualcosa di epico nel fatto che «Pace Adesso», il movimento che certo più odia i coloni al mondo, stia adesso svolgendo, certo nolente, una funzione di loro riabilitazione agli occhi del mondo. L´indagine compiuta in Cisgiordania e a Gaza dimostra che i settler non sono 220 mila pazzi guerrafondai, decisi per motivi egoistici a trascinare nel fuoco l'intero Medio Oriente. Sono invece, per quasi il 70 per cento, persone normali, che dopo la guerra del '67 (quando Israele occupò i Territori, che poi l'accordo di Oslo riconsegnò, almeno in parte, all'Autonomia palestinese) a ondate successive sono andate a vivere, per motivi più che altro ecologici, in zone rocciose o punteggiate di ulivi, in gran parte dure e desertiche ma immensamente affascinanti. Oppure persone che non avevano i mezzi per vivere in zone meno fuori mano.
Tutti, comunque, oggi sono spaventati dalla strage di innocenti che si compie nelle loro file, soprattutto i padri e le madri con tanti bambini. E, per quasi il settanta per cento, se ne vogliono andare, purché il governo lo chieda con le buone maniere, ovvero fornendo casa e lavoro altrove. Si può credere a questo quadro? La ricerca è molto attendibile, molto ampia, costruita su 3.200 gruppi familiari in 127 insediamenti diversi. E anche se ieri, piangendo il suo amico Elimelek, 43 anni e otto figli, ucciso dai terroristi in un agguato all'alba, e la famiglia Dickstein - padre, madre e uno dei loro nove figli, uccisi in un altro agguato vicino al loro insediamento - un capo dei settler, Benzi liebermann, diceva che mai, mai lui e i suoi amici se ne andranno e che l'inchiesta è viziata, «Pace Adesso», sicura di sé, gli ha mandato a dire: «Facciamo l'inchiesta insieme, con i criteri scientifici da voi prescelti. Tanto è chiaro che a farsi ammazzare come anatre da bersaglio, i vostri compagni non ci stanno più». La verità, è che sia «Pace Adesso» sia Benzi Liebermann hanno ragione. E´ vero che molti coloni se ne vorrebbero andare, ma è anche vero che esiste un nocciolo duro di irriducibili, che abitano soprattutto nelle zone di Hebron e di Nablus. E poi ci sono i giovani - circa il 7,7 per cento - che hanno fatto aumentare il numero degli abitanti degli insediamenti da 203 mila a 219 mila, inducendo la creazione di nuovi insediamenti avamposto. Là il pericolo di essere uccisi è grande, ma sono luoghi da cui davvero, come dice Liebermann, la gente dovrà essere, al momento di un'evacuazione decisa in parlamento, strappata via con la forza.
Per avere un´idea di quei luoghi e di quelle persone, immaginate di vivere in alto, contro il cielo, su una collina di pietre e stoppie nel mezzo al deserto, in un luogo chiamato, ad esempio, Tzur Shalem: un luogo estremo, un insediamento vicino a Karmei Tzur. Pochissimi caravan, alcune giovani famiglie, gente colta, religiosa ma non vestita di nero: al contrario, stile western, abiti colorati, atteggiamento californiano verso la terra, la sabbia, le nuvole, i pascoli. Molta preghiera, molta tradizione. E´ un nocciolo duro, convinto che il fucile, sulla frontiera della vita d'Israele, sia ancora indispensabile. Poco lontano, in genere, nel più vicino villaggio arabo, nel cuore del Gush Etzion, una moschea chiama alla preghiera i suoi fedeli. Al tramonto, vedi sulle colline intorno giovani palestinesi con i muli e le pecore che scrutano l'insediamento e, prima di affrontare una nuova notte di paura, pensi che il mondo intero ti chiama «settler», in italiano «colono»: una delle figure più vituperate dei nostri tempi. Se per caso l'insediamento di cui stiamo parlando è proprio Tzur Shalem, allora sono passate poche settimane da quando Yael Sorek, di origine italiana, incinta di nove mesi, e suo marito Eyal sono stati attaccati e uccisi a sera insieme a un soldato che aveva tentato di difenderli, Shalom Mordechai. Un episodio che fa di questo piccolissimo insediamento un luogo in cui il paesaggio pastorale, vuoto, premoderno, s´impasta con la paura, e la tensione. Yael e Eyal erano due giovani decisi a vivere con determinazione la loro scelta ideale. E la loro decisione di solitudine e di scabra essenzialità aveva tratto una motivazione politica più bruciante dall'attuale Intifada. Per tutto il mondo, o quasi, essi erano una delle cause determinanti del conflitto israelo-palestinese, più volte stigmatizzati come l'ostacolo principale sulla via della pace. Questo ripetono tutto il tempo gli europei; questo ha detto anche l'ambasciatore americano in Israele Dan Kurtzer, suscitando un'ondata di proteste. Ma Yael, che tutti ricordano come una ragazza dolcissima, e anche Eyal, vedevano se stessi come un avamposto contro gli attacchi terroristici. Nella pervasività degli attacchi a Netanya o a Tel Aviv vedevano la conferma del loro credo ideologico: che l´Israele biblica è un tutt'uno con il resto del Paese. Se si vanno a trovare, per esempio, Efi e Echia Katz, in un remoto sperone della Giordania, e li si guarda distrarre con qualche giocherello i loro quattro bambini fuori della baracca, mentre alla sera scrutano in lontananza i fuochi dei pastori palestinesi; se si ricorda la strage di un´intera famiglia, compresi due bambini nei loro lettini, in un insediamento poco lontano, si capisce che quelli, come dice Lebermann, non se ne andranno, che credono davvero che la sopravvivenza di Israele sia legata a loro. «E comunque, che differenza c'è fra deportare noi da qui e il trasferimento degli arabi che tutto il mondo paventa? Anche noi siamo cittadini, anche noi vogliamo essere protetti proprio come gli arabi», dice Efi.
Altrove, però le cose vanno diversamente. La gente che, senza possedere un'auto blindata, percorre strade come quella che passa lungo l'insediamento di Ofrà - curve, deserto, case palestinesi, facili nascondigli sul bordo -, la gente che ha contato a decine i morti riversi sul volante, la gente che vive verso Gaza, a Dugit, un insediamento di mare, in gran parte non ideologico, sente avvicinarsi il momento di cambiare. Una famiglia ha avuto la figlia uccisa e con lei il fidanzatino ventenne, che era andato a trovarla per il week end. La loro casa adesso è serrata, nessuno ci è più tornato. Hebron è un caso diverso. Ci sono ancora i discendenti delle famiglie giunte qui nel 1492, quando la regina Isabella di Spagna spedì in esilio tutti gli ebrei. Famiglie ebree che non si sono più mosse, neppure dopo il pogrom arabo del 1929. Dice il vecchio Ephraim, ritto sulla porta della tomba dei Patriarchi: «Guardate che cosa hanno fatto i palestinesi alla tomba di Giuseppe appena l'abbiamo lasciata: l'hanno distrutta e sopra hanno costruito subito una moschea. E qui, che altro potrebbe succedere se noi ce ne andiamo?». Sono dunque molto reattivi e nervosi i coloni di Hevron, come hanno dimostrato anche ieri scontrandosi, durante il funerale del soldato ventunenne Elazar Leibovitz, addirittura con l´esercito israeliano venuto a fare da cuscinetto tra coloni e palestinesi. Un argomento cui i settler sono sensibili, come dice Hana, dell'insediamento di Netzarim a Gaza, è che i soldati rischiano la vita per loro, e la società israeliana comincia ad essere molto preoccupata per questo grande sacrificio di vite umane. «Non lo sottovalutiamo affatto, e vorremmo davvero evitarlo dice Hana -. Speriamo che sia possibile. Ma contrariamente a quello che si pensa e che i giornali suggeriscono quando mettono solo nella pagine interne la notizia di "coloni" uccisi, (come è successo con l'autobus pieno di innocenti qualche giorno fa o con un'intera squadra di calcio di ragazzi) anche noi, finché non si trova un accordo di pace con i palestinesi, siamo cittadini israeliani che non vogliono diventare profughi per l'ennesima volta.
Noi, semplicemente, speriamo in una soluzione politica che non metta in pericolo Israele. Siamo noi, oggi, a proteggerla con il nostro corpo».
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